Le cose procedono velocemente. Per tre mesi a Khartoum i manifestanti hanno scandito che “il popolo vuole la caduta del regime”, senza ottenere niente. La scorsa settimana però hanno spostato la protesta verso il vero centro del potere del Sudan, il quartier generale dell’esercito. E il 12 aprile l’esercito ha risposto arrestando Omar al Bashir, il brutale dittatore che ha governato il paese negli ultimi trent’anni.
I generali stavano solo cercando di salvarsi la pelle, naturalmente. Il ministro della difesa Ahmed Awad ibn Auf, che già si preparava a prendere il posto del settantacinquenne dittatore, ha arrestato Al Bashir e si è messo alla guida di un consiglio temporaneo che avrebbe organizzato nuove elezioni tra, diciamo, due anni.
La cosa è stata così stupida da essere quasi divertente. Ibn Auf non si è nemmeno preoccupato di parlare con i manifestanti fuori del suo quartier generale prima di fare il suo annuncio, e quindi questi l’hanno ignorato e hanno continuato la protesta.
Cambiare di nuovo cavallo
Gli altri generali hanno avuto la chiara impressione che Ibn Auf non avesse davvero capito la gravità della situazione. I manifestanti non hanno mollato e addirittura alcuni dei soldati dell’esercito hanno sparato agli agenti dei servizi di sicurezza, fdeli al regime, quando questi hanno cercato di attaccare i manifestanti. E così è arrivato il momento di cambiare nuovamente il cavallo su cui puntare.
Il 12 aprile, alla sera, l’esercito ha convinto Ibn Auf a “dimettersi”, nominando al suo posto un altro generale, Abdelfattah al Burhan, come capo del consiglio militare ad interim. Al Burhan aveva due vantaggi: era uscito a parlare con i manifestanti e non è accusato di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale o minacciato da sanzioni internazionali (al contrario di Al Bashir e Ibn Auf).
Per addolcire la pillola, l’esercito ha anche costretto Salah Gosh, capo dei servizi di sicurezza e d’intelligence, universalmente odiati e responsabili di vari omicidi, a dimettersi. Speravano così che i manifestanti si sarebbero fermati. I generali volevano in realtà solo un paio d’anni, il tempo di distruggere le prove e accumulare il denaro per la loro pensione con fondi statali rubati prima di andarsene in esilio.
Niente da fare. Quando la folla ha scandito “vogliamo la caduta del regime”, intendevano davvero tutto il regime. E il 16 aprile è subentrata l’Unione africana (Ua), con la minaccia di sospendere il Sudan dall’organizzazione panafricana qualora l’esercito non avesse restituito il potere ai civili entro quindici giorni.
L’Ua è un’organizzazione diversa rispetto al suo corrotto e inutile predecessore, l’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Nonostante alcuni passi falsi, l’Ua è riuscita a costruirsi una reale autorità morale nella politica africana e gode di una reputazione più alta rispetto a qualsiasi unione regionale del mondo, a eccezione dell’Unione europea. Quando dice ai soldati africani di smettere d’impicciarsi di politica, è possibile che questi le diano retta.
Una pesante eredità
È quindi ragionevole credere che presto a Khartoum potremo vedere un governo di transizione interamente composto da civili. Anche senza una transizione di due anni. Tre mesi per organizzare elezioni libere, sei al massimo. Ma i problemi cominceranno dopo.
È evidente che le rivoluzioni democratiche non violente come questa ereditano enormi problemi economici. Se non ci fossero tali problemi, la maggior parte delle persone non scenderebbe in strada per protestare.
Il Sudan ha perso tre quarti dei proventi petroliferi otto anni fa, quando il Sud Sudan ha dichiarato l’indipendenza, tenendo per sé la maggior parte degli impianti d’estrazione. I 43 milioni di cittadini sudanesi hanno poco altro a disposizione per il loro sostentamento.
L’agricoltura potrebbe aiutare se la corruzione non fosse enorme, ma il Sudan è un paese con milioni di ettari di terra coltivabile potenzialmente fertile, dove il prezzo del pane è triplicato negli ultimi tre mesi.
È stato l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari a scatenare, in ultima istanza, la rivoluzione nel paese, proprio come era successo per la maggior parte delle rivoluzioni della “primavera araba” di otto anni fa. Solo uno dei sei paesi arabi che hanno intrapreso quel cammino nel 2011 è oggi democratico e pacifico. La sensazione è che anche per il Sudan le possibilità di farcela non siano tantissime.
Ora che l’Ua si è schierata apertamente contro di loro, i generali probabilmente accetteranno di scendere a patti. Se sono saggi, consegneranno alcuni dei loro colleghi più esperti in pasto ai lupi (tra i quali Al Burhan, che ha lavorato a stretto contatto con un altro dei brutali gruppi militari del regime, le Forze d’intervento rapido, note un tempo come janjaweed). Poi si ritireranno e rimarranno in attesa.
L’Associazione dei professionisti sudanesi, che guida le proteste, è intelligente e disciplinata, ma una volta al potere dovrà prendere decisioni profondamente impopolari per salvare l’economia dalla sua attuale paralisi. Gli islamisti, traditi e messi ai margini dal loro ex alleato Al Bashir, cominceranno a uscire nuovamente allo scoperto.
Tra un anno o due, quando tutti saranno profondamente disillusi dal persistere delle difficoltà economiche e del caos politico, l’esercito cercherà di riprendere il controllo, come è successo in Egitto. Il loro successo non è garantito, ma avranno il pieno sostegno dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Si tratta, purtroppo, di uno scenario probabile.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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