Il modo migliore per avere a che fare con Donald Trump, specialmente se sei un governo straniero che sta negoziando questioni commerciali, è dargli una piccola vittoria. Non deve necessariamente essere grande e importante: a lui interessa soprattutto annunciare un trionfo e quindi sarà lui stesso a gonfiare la tua piccola concessione in una grossa sconfitta. Ricorda solo di sembrare distrutto e sei a posto.

È andato così, per esempio, il recente “trionfo” di Trump sul Messico. Lui minaccia di alzare le tariffe contro il Messico, i messicani crollano in dieci giorni e il problema del confine è risolto (fino alla prossima volta che ne avrà bisogno). Solo i fissati notano che le “concessioni” messicane sono quasi tutte misure che il Messico aveva già promesso di prendere nel corso di tranquille e ordinate discussioni con gli Stati Uniti avvenute tra dicembre e marzo.

I canadesi hanno fatto ancora meglio quando hanno rinegoziato l’accordo di libero scambio nordamericano (Nafta). Trump lo definì “il patto peggiore mai firmato”, eppure diverse clausole del vecchio trattato che a Ottawa non piacevano sono state cancellate. L’unica concessione canadese è stata quella di dare ai produttori di latte degli Stati Uniti l’accesso al 10 per cento del mercato del latte canadese (che è solo di tre milioni di persone). Il punto ora è riuscire a convincere i canadesi ad acquistare quel latte proveniente da bovini allevati con ormoni della crescita.

Un prezzo molto basso da pagare, ma nessuno in Canada è stato così sciocco da gridare a voce alta che avevano fregato gli americani. I negoziatori canadesi hanno opportunamente assunto un’aria da sconfitti e Trump ha rivendicato il merito di un “grande affare” e di una “transazione storica”. Gioco, set e partita per Ottawa.

I due paesi stanno arrivando al punto in cui avranno reciprocamente imposto tariffe del 25 per cento su tutte le esportazioni

E così arriviamo al grande dramma della guerra commerciale di Trump con la Cina. Doveva essere un gioco da ragazzi, perché Pechino è in una posizione estremamente vulnerabile. Le sue esportazioni negli Stati Uniti valgono quasi tre volte di più delle esportazioni statunitensi verso la Cina, quindi non può davvero permettersi di perdere il mercato degli Stati Uniti. Il presidente cinese Xi Jinping dovrebbe dare un contentino a Trump, abbastanza per renderlo felice – è contento con poco – e passare al prossimo problema.

Nella misura in cui Donald Trump calcola le sue mosse in anticipo sarebbe stato logicamente corretto. Ma non ha funzionato in questo modo: dopo un anno di escalation e contro escalation, i due paesi stanno arrivando al punto in cui avranno reciprocamente imposto tariffe del 25 per cento su tutte le esportazioni. Cosa è andato storto?

Trump ha fatto le sue solite minacce ed è stato il primo a intensificare il balletto, ma se i messicani e i canadesi possono aggirare il suo istrionismo, perché i cinesi non lo fanno?

Forse è solo orgoglio: Xi semplicemente non può sopportare la visione di Trump esultare mentre celebra la sua vittoria sui cinesi. O forse è paura: lasciare che Trump riporti una vittoria (e una vera, questa volta) umilierebbe così tanto Xi agli occhi dei suoi compagni di partito e rivali interni che la sua posizione sarebbe in pericolo.

Un’economia allo stallo
Probabilmente la ragione è quest’ultima. I negoziati sembravano andare bene, con Trump che prevedeva un accordo “epico” e lodava il suo caro amico Xi. All’improvviso, all’inizio di maggio, la Casa Bianca si è lamentata del fatto che la Cina stava tentando di rinegoziare i punti concordati in precedenza e l’intera faccenda è andata in pezzi. Sembrerebbe che Xi abbia perso una discussione interna – il che implicherebbe che è molto meno forte di quanto si pensasse.

In entrambi i casi, Xi sta commettendo un grosso errore. L’economia cinese non sta andando bene. La produzione industriale è in calo e lo scorso anno le vendite di nuove automobili sono diminuite per la prima volta dal 1990. Il debito totale della Cina, anche se su cifre ufficiali non attendibili, si avvicina a tre volte il pil annuo, che è il livello in cui di solito sale il panico. Di fatto, è lo stesso livello a cui cominciò la depressione economica del Giappone, nel 1991.

Togliendo tutti gli investimenti improduttivi e la contabilità creativa, il pil cinese è cresciuto lo scorso anno di meno del 2 per cento. L’occupazione è stagnante, le vendite al dettaglio sono in calo, il mercato azionario è calato di un quarto nel 2018. Questa non è un’economia in buone condizioni in grado di resistere a una guerra commerciale prolungata.

La grande paura del Partito comunista cinese è che le persone si rivolterebbero contro il regime se l’economia stagnasse e gli standard di vita smettessero di crescere. Di certo non amano il regime. Perché obbedirgli? Questa teoria potrebbe essere messa alla prova nei prossimi anni.

Quindi se Xi non è libero di raggiungere un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e i carri armati dell’economia cinese, cosa dovrà fare per salvare il regime comunista e il suo potere? Avrà bisogno di una guerra internazionale, o almeno della minaccia di una guerra, in modo da ottenere l’appoggio dei nazionalisti. Non guerra agli Stati Uniti, ovviamente. Sarebbe pazzo. Ma Taiwan andrebbe bene.

E di questa cosa non si potrà davvero incolpare Trump.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

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