Oscar Wilde descrisse la caccia alla volpe come “l’indicibile all’inseguimento dell’immangiabile”. Parafrasando lo scrittore irlandese, oggi potremmo definire la Brexit come “l’impazzito all’inseguimento dell’infattibile”.
Partiamo dall’impazzito. I due superstiti nella corsa per sostituire Theresa May come leader del Partito conservatore e di conseguenza come primo ministro del Regno Unito sono Boris Johnson e Jeremy Hunt. Entrambi hanno promesso che il prossimo 31 ottobre, se gli europei non si piegheranno al loro volere, porteranno Londra fuori dall’Unione europea anche senza un accordo.
Un no deal rappresenterebbe una catastrofe economica. Il commercio con l’estero del Regno Unito è attualmente regolato da una miriade di accordi negoziati dall’Unione nel corso dei decenni a nome degli stati che ne fanno parte, dunque una volta abbandonato il club, il Regno Unito non avrebbe più alcun accordo commerciale, nemmeno con l’Europa.
Johnson e Hunt sanno che in questo caso il paese andrebbe incontro a indicibili sofferenze economiche, eppure tirano avanti. Domenica Hunt ha dichiarato che l’eventuale fallimento di alcune società in caso di Brexit “dura” sarà un sacrificio necessario che andrà accettato pur “con la tristezza nel cuore”. Boris Johnson è stato meno delicato: “Fanculo le aziende” (giuro, non me lo sono inventato).
Il partito è diventato un veicolo del più rabbioso nazionalismo inglese, per poi trasformarsi in un culto laico
Stiamo parlando di due esponenti del Partito conservatore, quello che per quasi due secoli è stato il “partito degli affari”. Sfortunatamente, da un po’ di tempo, non è più così. Il partito è diventato un veicolo del più rabbioso nazionalismo inglese, per poi trasformarsi in un culto laico che considera la Brexit come una sorta di Santo Graal.
All’interno del Partito conservatore, ormai, le tradizionali riflessioni sugli interessi nazionali non hanno più cittadinanza. Secondo un recente sondaggio di YouGov il 63 per cento dei conservatori sarebbe disposto a perdere la Scozia pur di ottenere la Brexit. Il 59 per cento accetterebbe di separarsi anche dall’Irlanda del Nord. Più del 60 per cento è pronto a subire “danni pesanti all’economia britannica”. Insomma Brexit dev’essere a ogni costo, più dura e dannosa possibile.
Quindi sì, è innegabile che il Partito conservatore sia sostanzialmente impazzito. Anche perché, ricordiamolo, un’uscita ragionevole dall’Unione europea è assolutamente fattibile. Theresa May l’ha firmata a novembre.
Quello di May non è un accordo perfetto (non si possono avanzare troppe pretese quando si esce da un club con 27 altri tesserati), ma permetterebbe comunque al Regno Unito di continuare a commerciare con il resto del mondo a condizioni vantaggiose. Ma May non è riuscita a far approvare l’accordo, perché aveva una maggioranza risicata in parlamento e si è scontrata con gli estremisti pro Brexit del suo partito.
Fantasia e realtà
Johnson e Hunt vogliono cestinare l’accordo di May e “rinegoziarne” uno migliore. Ma questo è del tutto infattibile. L’Unione europea ha ribadito più volte che l’accordo di Theresa May non può essere “rinegoziato” e lo ripete quasi ogni settimana. Nè Johnson né Hunt sono in grado di far cambiare idea agli altri 27 paesi europei soltanto con la “forza” della loro personalità.
Di sicuro ne sono consapevoli, ma continuano a fare finta che non sia così perché i 160mila tesserati del Partito conservatore che dovranno scegliere il successore di May – un gruppo in cui dominano i maschi bianchi e piuttosto ricchi e la cui età media è 57 anni – credono con fervore religioso che per far capitolare lo Straniero sia sufficiente urlargli in inglese.
È un abbaglio clamoroso, e soltanto un pazzo vorrebbe l’incarico per cui si stanno sfidando Johnson e Hunt. Quando la fantasia si scontrerà con la dura realtà, il prossimo ottobre, ogni sviluppo sarà possibile: una Brexit dura, la caduta del governo, la disintegrazione del Partito conservatore, nuove elezioni o addirittura un secondo referendum che potrebbe spazzare via tutta l’assurdità degli ultimi tre anni (al momento il 56 per cento dei britannici dichiara che voterebbe a favore dell’adesione all’Unione europea).
Quale che sia il risultato finale, questo è un modo distruttivo e delirante di fare politica. L’ultima ondata di follia nel Regno Unito è stata provocata dal crollo elettorale dei conservatori nel surreale voto per il parlamento europeo di maggio, in cui i Tory sono stati il quinto partito del paese.
I conservatori si sono fatti prendere dal panico pensando (giustamente) che alle prossime elezioni nazionali saranno travolti se non “regaleranno” la Brexit ai loro elettori. Questo ha portato alla defenestrazione di Theresa May e alla ricerca di un nuovo leader che in qualche modo possa portare a termine la missione prima che il partito venga nuovamente sottoposto al giudizio dell’urna.
Oggi Brexit significa Brexit dura, perché l’Unione non farà marcia indietro sull’accordo negoziato. Anche l’aritmetica del parlamento britannico è rimasta immutata, lo stesso parlamento che ha ripetutamente bocciato l’accordo. Johnson e Hunt hanno dichiarato entrambi che se necessario sono disposti a bloccare il parlamento pur di far passare la Brexit dura. Con tanti saluti alla democrazia.
È facile capire come siamo arrivati a questo disastro in termini di causa ed effetto, ma è sorprendente notare fino a che punto la classe politica abbia dato prova di vergognosa ignoranza, incompetenza e codardia. Paragonata al parlamento britannico, la Casa Bianca di Donald Trump è un esempio di efficienza e lungimiranza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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