“Smettetela di chiamarmi scarafaggio baffuto, sono ancora il presidente di questo paese”, ha tuonato Aleksandr Lukašenko. Ma le sue parole non suonano particolarmente presidenziali. Lukašenko è presidente della Bielorussia da 26 anni, mentre Sergei Tikhanovsky, il videoblogger che per primo lo ha apostrofato con l’epiteto di “scarafaggio baffuto”, si trova in una delle prigioni del paese. La moglie di Tikhanovsky, Svetlana, è candidata alle elezioni presidenziali di domenica 9 agosto al posto del marito e potrebbe ottenere un numero di voti sufficiente a costringere “l’ultimo dittatore d’Europa” al ballottaggio.

Sergei Tikhanovsky ha colpito nel segno. I baffi del presidente sono un chiaro rimando al modello del dittatore dell’Europa dell’est degli anni trenta, e proprio come gli scarafaggi, anche Lukašenko non è facile da eliminare. Tikhanovsky, star di YouTube, ha scelto una pantofola come simbolo (perché i bielorussi schiacciano gli scarafaggi con quelle, a quanto pare) e ha cominciato a girare per le strade di Minsk con una pantofola gigante sul tetto dell’automobile.

Secondo un sondaggio discutibile Lukašenko otterrà appena il tre per cento dei voti alle prossime elezioni, con cui cerca di ottenere un sesto mandato. Dopo la diffusione del sondaggio, graffiti e magliette con la scritta “Tre per cento” sono comparsi improvvisamente in tutta la città. A quel punto Tikhanovsky ha preso coraggio e ha dichiarato che si sarebbe candidato come presidente. È stato arrestato due giorni dopo, a inizio maggio. Ma la sua vicenda ha fatto apparire vulnerabile Lukašenko, e altri candidati si sono fatti avanti.

Candidature e arresti
L’ex banchiere Viktor Babaryko ha annunciato la sua candidatura ed è stato immediatamente incarcerato con l’accusa di frode, il 18 giugno. All’ex ambasciatore bielorusso presso gli Stati Uniti Valery Tsepkalo è stata rifiutata l’autorizzazione a candidarsi. A causa delle intimidazioni Tsepkalo ha deciso di rifugiarsi in Russia con i suoi due figli.

Ma la verità è che nessuno dei tre candidati si è davvero ritirato dalla corsa alla presidenza. Semplicemente i tre uomini hanno ceduto il passo a tre donne. Svetlana Tikhanovskaya è la candidata dell’opposizione alla presidenza, sostenuta dalla moglie di Tsepkalo, Veronica, e da Maria Kolesnikova, rappresentante di Babaryko. Al momento appare improbabile che Tikhanovskaya superi il cinquanta per cento dei voti, ma lo stesso vale per Lukašenko (esistono altri tre candidati minori).

Il ballottaggio sarebbe molto interessante, perché Tikhanovskaya erediterebbe la maggioranza dei voti dei candidati minori. La moglie di Sergei rischia seriamente di vincere, anche perché Lukašenko, diversamente dagli altri uomini forti dell’Europa, non ha molte risorse.

Un presidente in crisi
Il presidente non può fare affidamento sul nazionalismo che sorregge Viktor Orbán in Ungheria. Prima del 1991, infatti, la Bielorussia non è mai stata indipendente. Per due secoli il paese ha fatto parte della confederazione polacco-lituana, prima di trascorrerne altrettanti all’interno dell’impero russo e poi sovietico. I bielorussi non odiano né temono i loro vicini.

Lukašenko non può nemmeno sfruttare il fervore religioso che regala stabilmente la metà dei voti ai partiti ultracattolici in Polonia e a quelli islamici in Turchia. I bielororussi non sono particolarmente devoti. Il quaranta per cento della popolazione dichiara di non seguire alcuna religione.

Inoltre il presidente non ha molti successi da vantare sul fronte economico: il prodotto interno lordo pro capite della Bielorussia è appena la metà di quello della Russia (con cui confina a est) e un terzo di quello della Polonia (con cui confina a ovest). Lukašenko ha definito una “psicosi” la pandemia di covid-19, ma oggi il paese registra il doppio dei casi rispetto alla Polonia, nonostante abbia un quarto degli abitanti.

Le dittature che cercano di operare dietro la facciata delle elezioni “libere” devono mantenere un certo livello non soltanto di paura, ma anche di competenza. Tuttavia la credibilità di Lukašenko sembra aver cominciato a sgretolarsi. Una manifestazione contro il regime organizzata a Minsk il 19 luglio ha coinvolto circa diecimila persone. Appena undici giorni dopo, un nuovo evento organizzato nella capitale ha attratto 63mila persone.

Lukašenko potrebbe davvero perdere al ballottaggio, a meno che non si verifichino brogli su larga scala. In caso di sconfitta, però, il rischio è quello di un’esplosione della violenza, perché il dittatore non ha alcuna intenzione di farsi da parte alla tenera età di 65 anni. Se uscirà di scena, lo farà combattendo.

Il presidente sta già ponendo le basi per la repressione. La settimana scorsa la polizia segreta ha fatto irruzione in un centro benessere e ha arrestato 33 “mercenari” russi che farebbero parte dell’organizzazione Wagner e che secondo Lukašenko stavano pianificando un attentato per influenzare le elezioni. Il presidente sostiene che nel paese circolino ancora duecento terroristi pronti all’azione.

Naturalmente si tratta di un’assurdità. Vladimir Putin non ha alcun desiderio di vedere altri dittatori postsovietici sconfitti dal voto popolare. I mercenari russi, probabilmente, si trovavano in Bielorussia per nascondere le proprie tracce prima di raggiungere la Libia, la Siria o il Sudan, dove il lavoro per loro abbonda. Lukašenko sta sbandierando la minaccia del terrorismo per giustificare una repressione violenta dell’opposizione nel caso dovesse perdere le elezioni.

Svetlana Tikhanovskaya ha dichiarato che in caso di vittoria non intende ricoprire la carica di presidente, ma si limiterà a chiedere la liberazione dei settecento esponenti dell’opposizione e attivisti arrestati da maggio, per poi organizzare elezioni realmente libere. Non è una richiesta irragionevole, questo è sicuro.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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