I colombiani devono imparare l’arte dell’accoglienza
Nelle società primitive gli uomini di un villaggio andavano a cercare le mogli tra le donne di un villaggio vicino per poi portarle a vivere con loro, di solito sotto la tutela della suocera. Si notano ancora resti di questa tradizione in alcune società moderne in cui si pratica l’esogamia: la donna da sposare proviene dall’esterno della famiglia del marito e dal luogo in cui vive il futuro sposo. Questo causa un fenomeno strano: le donne estranee sono benvenute, gli uomini estranei no. Gli uomini possono venire a cercare moglie, ma devono lasciare qualcosa, o dare certe garanzie, per sposarla. E non devono restare in territorio altrui oltre il tempo necessario.
Da straniero che ha vissuto in diversi paesi, ho notato che molte colombiane sono sposate con uomini di altri paesi (greci, olandesi, italiani, statunitensi, tedeschi, giapponesi), mentre pochi colombiani si sposano e vivono all’estero con delle straniere. Meno raro mi sembra il caso di colombiani che vivono in Colombia con mogli di altri paesi. A conferma di una stessa intuizione: sono più accettate le donne immigrate degli uomini immigrati.
Nella seconda metà del novecento milioni di colombiani sono andati a cercare fortuna in Venezuela. Quando, negli anni settanta, il paese era conosciuto come Venezuela saudita, moltissime donne colombiane andavano a svolgere mestieri umili (cuoche, donne delle pulizie, badanti) nel paese confinante e a volte famiglie intere emigravano in cerca di una vita meno dura. Le rimesse in bolívares (una valuta forte prima del chavismo) davano una mano ai familiari rimasti in Colombia.
Quando questi profughi erano ricchi, come nei primi anni del chavismo, dargli il benvenuto era più semplice
Adesso il Venezuela ci restituisce il favore. Forse per la prima volta nella nostra storia repubblicana, la Colombia non è un paese che esporta esseri umani e genera milioni di profughi economici e politici: ora i profughi vengono da fuori e vogliono restare, non perché il nostro paese sia il paradiso (al massimo è un tiepido purgatorio), ma perché il paese confinante è diventato un inferno molto peggiore.
Questa presenza quasi inedita di stranieri sul nostro territorio fa venire a galla il meglio e il peggio della popolazione: istinti generosi e solidali, istinti xenofobi di rifiuto.
Fortunatamente non ci distinguiamo dai venezuelani per pelle, modo di vestire o religione. Solo quando aprono bocca, con quella sensibilità che abbiamo per gli accenti della nostra madrelingua, ci rendiamo conto che arrivano dall’altra parte del confine. Molti hanno la doppia cittadinanza, perché sono figli o nipoti dei colombiani emigrati il secolo scorso. Altri, semplicemente, cercano le cose più elementari: cibo, lavoro, riparo, sicurezza.
Ma un’economia media come la nostra non può assorbire in pochi mesi milioni di nuovi abitanti. È molto difficile garantirgli una casa, del cibo, assistenza sanitaria, un lavoro, istruzione. Quando questi profughi erano ricchi, come nei primi anni del chavismo, dargli il benvenuto era più semplice, perché chi si presenta con dei dollari non si snobba tanto facilmente. Ma adesso che arrivano senza un soldo e con lo stomaco vuoto, anche i mendicanti sentono che gli stanno rubando i semafori e gli angoli e che sono la concorrenza.
Poco più di un anno fa ho scritto che la Colombia avrebbe dovuto accogliere dei profughi siriani e cercare di portarli nei centri più piccoli, per integrarli tra noi come un innesto che avrebbe arricchito la nostra cultura. A maggior ragione ora penso che sia un nostro dovere essere aperti con i venezuelani. Con le donne venezuelane (ho già notato) non sembra difficile essere ospitali, ma dobbiamo esserlo anche con gli uomini e con intere famiglie. Sento già la risposta di alcuni: “Accoglili tu!”. Hanno ragione. Tutto comincia da noi stessi. Offro lavoro a un venezuelano in una casa editrice.
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano colombiano El Espectador.