Charlotte “Lottie” Dod aveva solo 16 anni quando giocò contro un uomo. Tre uomini, per essere precisi. Era l’estate del 1888 e Dod, prodigio del tennis britannico, aveva già vinto due titoli a Wimbledon, guadagnandosi il soprannome di little wonder, piccola meraviglia. Ma era sempre alla ricerca di una nuova impresa: tre partite di singolare contro i migliori tennisti del mondo avrebbero sicuramente attirato molta pubblicità. Due degli sfidanti la conoscevano già, avendoci giocato in coppia in partite di doppio misto. Uno di loro, Ernest Renshaw, aveva anche già giocato contro una donna: Blanche Bingley, la grande rivale di Dod (in modo provocatorio, Renshaw aveva giocato indossando degli scomodi abiti femminili, vincendo poi la partita).

Gli uomini permisero a Dod di cominciare la partita con un vantaggio di 30-0, concedendole anche il diritto di chiedere di rigiocare fino a tre punti in ogni set. Ma la donna aveva anche degli svantaggi: indossava un vestito lungo e a collo alto, un corsetto, calze spesse e pesanti scarpe di cuoio. Inoltre, come la maggior parte delle tenniste dell’epoca effettuava il servizio dal basso verso l’alto. Dopo aver perso il primo set, Renshaw raddoppiò gli sforzi. Un commentatore fece notare che, dopo essersi reso conto “di non avere di fronte un avversario donna come gli altri, giocò ogni colpo con grande intensità”. Renshaw recuperò lo svantaggio e vinse a fatica la partita (2-6, 7-5, 7-5). Gli altri due uomini, invece, furono sconfitti da Dod. Ottantacinque anni prima che la tennista Billie Jean King sfidasse Bobby Riggs nella “battaglia dei sessi”, un’adolescente vittoriana mostrò al mondo cosa potevano fare le donne.

La storia di Dod è ancora più straordinaria se si considera che, dopo aver vinto per altre tre volte a Wimbledon, smise di giocare a metà anni novanta dell’ottocento, convinta di non aver più niente da dimostrare. Più tardi avrebbe rappresentato l’Inghilterra nell’hockey su prato, vinto una medaglia d’argento alle Olimpiadi al tiro con l’arco, e sarebbe diventata anche una scalatrice, un’esperta cavallerizza, una talentosa pattinatrice sul ghiaccio, una campionessa di golf e una spericolata appassionata di slittino.

Dopo aver fatto scalpore nell’Inghilterra di fine dell’ottocento, un’epoca di grandi fermenti femministi, Dod morì praticamente dimenticata nel 1960: “Una reliquia vittoriana nell’epoca nucleare”, come ha malinconicamente scritto il giornalista Sasha Abramsky, che ha cercato di restituirle il suo posto nella storia nel libro Little wonder: the fabulous story of Lottie Dod, the world’s first female sports superstar (Piccola meraviglia. La favolosa storia di Lottie Dod, la prima campionessa dello sport femminile mondiale). Lo ha fatto nel solco di una tendenza femminista ben radicata: la riscoperta di donne pioniere in vari campi. Nessuno aveva ancora individuato l’equivalente sportivo della drammaturga Aphra Behn o della matematica Ada Lovelace. È possibile quindi che quella figura sia Lottie Dod?

Dna familiare
Capire se Dod meriti un posto nel pantheon della grandezza sportiva è un compito delicato. In fondo si è confrontata con un gruppo ristretto di avversarie dilettanti, di classe media e alta, indossando vestiti scelti con criteri di modestia e non pensando alla performance. Anche valutare la sua straordinaria versatilità non è semplice. Oggi il fatto che si dedicasse a tanti sport può apparire come una forma di dilettantismo, ma potrebbe anche mostrare come siano cambiati i criteri con i quali decretiamo il successo individuale. La grandezza sportiva viene oggi identificata con la formula del Tiger path, il cammino della tigre, in riferimento all’assoluta e incrollabile dedizione dimostrata dal golfista Tiger Woods fin da bambino. Ma nel suo libro Generalisti. Perché una conoscenza allargata, flessibile e trasversale è la chiave per il futuro, David Epstein sposa invece il più eclettico Roger path, in riferimento a Roger Federer, che da bambino adorava lo skateboard, lo scii e la lotta, e si dedicò pienamente al tennis solo da adolescente.

Charlotte Dod, 1887. (Hulton Archive/Getty Images)

Il Lottie path è una variante estrema di questo approccio, oggi decisamente fuori moda. Eppure la storia di Dod getta luce sugli sforzi che una donna fece per reclamare il suo posto nel mondo dello sport, un regno da sempre dominato dagli uomini, come giocatori, come arbitri, come allenatori e come spettatori. Nelle Olimpiadi antiche alle donne non era concesso partecipare. All’epoca di Dod il presidente del Comitato olimpico internazionale definì lo sport femminile “contrario alle leggi della natura”. Tuttavia, lo sport non era contrario alla natura di Dod. Nata nel 1871 nel villaggio di Lower Bebington, poteva contare sugli agi che una famiglia come la sua, appartenente alla classe medio-alta, poteva permettersi (tra i quali un campo da tennis in casa); ma poteva contare anche sulle qualità fisiche che abbondavano in famiglia, con tre fratelli che eccellevano nello sport. Molto presto sua sorella maggiore, Ann, divenne la sua partner e accompagnatrice nelle gare di doppio. Più tardi furono i fratelli maschi ad accompagnarla nelle sue sortite sportive all’aria aperta.

Nella società vittoriana la più alta aspirazione di una donna che praticava sport era la rispettabilità. Era “poco femminile” esibirsi in pubblico? E aspirare a battere l’avversario, cercando la gloria? Allenarsi duramente per eccellere, invece di rassegnarsi a vivere un ruolo da comprimaria nella vita di qualcun altro? Le risposte a queste domande erano evidenti, ma non impedirono a Dod di colpire la palla con “assoluta ferocia”– come scrive Abramsky –, di stracciare avversarie più femminili o di disdegnare quelle donne che “si limitano a frivolezze da feste in giardino” tenendo una racchetta in mano. La modestia femminile non le impedì neppure di conservare un album con i ritagli di giornale che parlavano di lei. Questo anche se coglieva benissimo il paternalismo di buona parte degli articoli che la lodavano, per esempio, per il suo essere “sana, florida e forte come un uomo” ma senza “mettere da parte una briciola della sua femminilità”.

Dod parlava apertamente di un altro svantaggio che penalizzava le atlete dell’epoca: l’abbigliamento

Un raro barlume del fuoco interiore che spingeva Dod a competere con tanto vigore emerge nel saggio di sette pagine sul tennis che scrisse lei stessa quando aveva 18 anni. Abramsky cita alcuni passaggi, nei quali Dod criticava i commentatori convinti che “nessuna donna potesse capire i punteggi del tennis”. Dod attaccava inoltre il caporedattore di una famosa rivista, definendolo “un despota irresponsabile”, e sosteneva che le donne avevano “definitivamente smentito” i pregiudizi di quest’uomo nei loro confronti.

Parlava anche apertamente di un altro svantaggio che penalizzava le atlete dell’epoca. “Come potranno mai sperare di giocare come si deve, quando i loro vestiti impediscono il libero movimento di ogni arto?”, faceva notare a un giornalista. “Bisogna trovare urgentemente un abbigliamento consono. Le giocatrici disorientate riserverebbero un caloroso ringraziamento a chiunque riuscisse a inventare una tenuta facile da portare ed elegante”. Avendo cominciato a competere da adolescente, all’inizio Dod poté sfruttare il fatto di poter indossare delle gonne al di sopra della caviglia, ma presto venne ostacolata e appesantita da abiti più restrittivi (per capire meglio la vita quotidiana della donne in età vittoriana bisogna ricordare che il movimento per l’abbigliamento razionale, emerso a metà dell’ottocento, proponeva di ridurre il peso degli indumenti intimi – che fino a quel momento potevano superare i sei chili – a poco più di tre chili, un peso comunque notevole).

Mentre leggevo Little Wonder continuavo a ripensare a Serena Williams, che un secolo dopo Dod ha dovuto affrontare le stesse questioni. L’idea che la femminilità renda più rispettabile un’atleta donna è diffusa ancora oggi. Nel 2018 il presidente della Federazione francese di tennis, Bernard Giudicelli, ha dichiarato che la tuta intera nera lucida indossata dalle sorelle Williams durante l’open di Francia si spingeva “troppo oltre”, e ha aggiunto che era necessario “rispettare lo sport e il luogo”. Vale la pena ricordare che l’open di Francia viene giocato su campi tappezzati di nomi di compagnie aeree e banche d’investimento, non nelle stanze dell’Eliseo. Perché imporre un codice d’abbigliamento formale ad atleti che condividono lo spazio con cartelloni di 15 metri con la scritta “volate Emirates”? Come successo a Dod prima di lei, a Williams è stato intimato di giocare con abiti che non le facessero perdere “una briciola della sua femminilità”.

Pregiudizi duri a morire
Serena Williams ha tantissimi tifosi, ma rappresenta un’eccezione: spesso gli sport femminili sono ancora considerati inferiori, sia dai giocatori sia dagli spettatori maschi: uno status di seconda classe solitamente motivato da considerazioni economiche. Il tennista Novak Đoković una volta ha dichiarato che l’ammontare dei premi in denaro dovrebbe essere determinato da “chi attrae più attenzione, spettatori, e chi vende più biglietti”. Ma la maggior popolarità dello sport maschile non è il risultato di una legge naturale, come la gravità o la qualità progressivamente calante dei dischi dei Radiohead. In tutto il mondo lo sport femminile è poco finanziato e poco promosso. Per questo il Titolo 9, la legge che negli Stati Uniti proibisce la discriminazione su base razziale nei programmi d’istruzione, è stato così importante e contestato. Dalla sua entrata in vigore, nel 1972, la partecipazione delle donne nello sport universitario americano è aumentata del 545 per cento, e il numero di ragazze che praticano sport a livello liceale è cresciuto del 990 per cento. Ma l’uguaglianza è ancora lontana riguardo all’attività agonistica e ai guadagni economici.

Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che Dod fosse una vittima passiva di atteggiamenti paternalistici. Fu fortunata ad avere dei fratelli e altri amici che la sostennero in gioventù. Dal racconto di Abramsky emerge che gli uomini che sfidò non vedevano le partite come un modo di rimettere le donne al loro posto. E nella sua vita dopo il tennis, le vacanze trascorse nella località sciistica di St.Moritz le permisero di frequentare circoli sociali dove la sua pratica sportiva era ammirata e incoraggiata. Incontrò uomini che la presero seriamente, ed erano pronti a dedicare del tempo ad allenare un’atleta evidentemente straordinaria. Dopo aver superato un difficile concorso di pattinaggio sul ghiaccio riservato alle donne, si allenò per quello riservato agli uomini, molto più rigoroso. Fu incoraggiata in questo dall’esempio della sua amica Elizabeth Main, la prima donna a superarlo.

Questo rapporto rafforzò Dod. In Main – irlandese di nascita, ricca, due volte vedova e carismatica – Dod aveva finalmente trovato una donna che poteva tenerle testa per abilità sportive e per coraggio. Le due donne cominciarono a dedicarsi insieme all’alpinismo, scalando vette difficili in Svizzera e Norvegia. Main spiegò a Dod come usare un’ascia per incidere la roccia. Dormivano in rifugi di montagna, lanciandosi all’alba alla conquista delle alture. Poi, dopo cinque avventure insieme, per ragioni poco chiare, litigarono e si persero di vista.

Chiedersi se si siano allontanate per motivi sentimentali – non è chiaro se Main sia mai stata più di un’amica per Dod, che non si sposò mai – non è fuori luogo. Molte riformatrici sociali d’età vittoriana, come Sophia Jex-Blake e Octavia Hill, erano lesbiche. Non avevano mariti o figli che le legassero alla sfera domestica, e forse la loro sessualità gli fece presto capire che non avrebbero mai trovato posto nella società convenzionale. Può darsi dunque che per Dod – come per altre pioniere del tennis come Billie Jean King e Martina Navrátilová – la non conformità di genere, sociale e sessuale andassero in qualche modo di pari passo?

Nel suo libro Abramsky ha scelto saggiamente di non affrettare conclusioni politiche. Dod è stata una pioniera, desiderosa d’inanellare un “primato” femminile dopo l’altro. Ma non aveva la vocazione dell’attivismo, anche se convinse il Royal North Devon golf club “a permettere alle signore di usare i loro impianti da ottobre a maggio di ogni anno”. Né fu una suffragetta pronta a sacrificarsi in prima persona, anche se il coraggio non le mancò mai: si offrì infatti volontaria come infermiera durante la prima guerra mondiale, nonostante i dolori alla sciatica. Abramsky si è rifiutato di fare della vita di Dod una parabola edificante della liberazione femminile. Ha scelto invece di celebrarla in quanto figura originale, coraggiosa, di talento e determinata. Nello sport la battaglia dei sessi è ancora lunga. Ma Dod, anche solo vivendo appieno la sua vita, ha realizzato tantissime imprese.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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