La famiglia di Filadelfia
Volano, gli anni. E non sembra vero che stia già per passare alla storia l’album fotografico della presidenza Obama che scorre sul palco della convention democratica di Filadelfia prima che lui, palesemente commosso, entri in scena. Sono volati anche per lui, era così giovane 12 anni fa alla sua prima convention a Boston e invece adesso, glielo dicono sempre Malia e Sasha, ha i capelli grigi, ma non si è ingrigita “la fede di allora nell’America grande e generosa, che ha reso possibile la mia storia”. Quell’America, “l’America che ho visto io, festeggiando e piangendo con voi”, non andrà a finire nelle mani e nelle paranoie di Trump. Perché in otto anni l’America è stata messa alla prova dalla peggiore recessione della sua storia e dagli eventi internazionali, molto è stato fatto e molto resta da fare, c’è ansia per le ingiustizie sociali e le divisioni razziali, “per la pazzia di Orlando e per quella di Nizza”; ma, Obama lo sa e lo rivendica, il paese che lui lascia è migliore di quello che aveva trovato nel 2008. E non merita quella marea di “pessimismo, risentimento, rabbia, odio” che s’è vista montare a Cleveland la settimana scorsa, e che alza la posta in gioco delle elezioni di novembre: una scelta, dice il presidente americano ma qui le sue parole non risuonano solo in America, non tanto fra destra e sinistra, quanto “fra un popolo che si autogoverna” e l’illusione della delega ad un uomo solo al comando. Fra lo “yes we can”, scandisce Obama, e lo “yes, he, o she, can”. Il punto è tutto lì: “l’America è già grande”, e la sua grandezza “non dipende da Trump, non dipende da una sola persona, dipende da noi, we the people, e dalla nostra capacità di forgiare il nostro destino”. Autogoverno, sindacati, partecipazione: è il vocabolario classico della democrazia che Obama snocciola contro l’avversario, chiamando a mobilitarsi l’America che dal palco di Filadelfia tutti invocano: l’America che sa che “tutti insieme siamo più forti, bianchi e neri, ispanici e asiatici, donne e uomini, eterosessuali e omosessuali”; l’America della classe media, l’ordinary people “capace di cose straordinarie” cui nel suo appassionato intervento di rivolge Joe Biden; l’America che non smette di sognare “un sogno che non si lascerà contenere da nessun muro”.
Passa da questo inno all’America “vera”, che fa tutt’uno con la rivendicazione della propria eredità, l’endorsement di Obama a Hillary. E qui non si tratta solo degli aggettivi che il presidente uscente spende per garantirne la competenza, l’intelligenza, la tenacia, la passione. Il fatto è che quando Obama finisce di parlare sommerso dalle ovazioni e lei, rompendo il copione, spunta dal backstage e lo raggiunge sul palco, nell’abbraccio fra il primo presidente afroamericano e la prima candidata donna si vede che qualcosa di profondo è cambiato davvero, nell’America degli ultimi anni, qualcosa che supera con la forza di un salto simbolico la messa in scena e la strategia comunicativa della convention democratica. La prima volta di una donna in viaggio verso la Casa Bianca è incorniciata infatti da una sceneggiatura che rappresenta il partito democratico americano come una famiglia unita malgrado i litigi, forte malgrado gli attacchi, serena malgrado le difficoltà, le paure e lo spettro di Trump che lucra sulle difficoltà e sulle paure. E però quella che va in onda non è la soap stucchevole di una famiglia tradizionale, è piuttosto una recita a soggetto che spariglia i giochi, rompe gli schemi, scompiglia i ruoli di una famiglia post-patriarcale.
Bisogna cogliere lo sguardo d’intesa fra Obama e Bill Clinton, quando Obama dice “spero che non ti dispiaccia, Bill, se dico che non c’è mai stato nessuno, né io né tu, più qualificato di Hillary per la presidenza”, per vedere materializzarsi quel passo a lato degli uomini dai ruoli di potere che l’altra metà del cielo aspetta da decenni, in America e ovunque. Bisogna ricordare il terremoto che fu per l’immaginario politico patriarcale il crollo del muro fra personale e politico ai tempi del sexgate clintoniano, e apprezzare l’eleganza con cui Obama ha saputo fare del suo stile personale la sua cifra presidenziale, per capire quali cambiamenti della soggettività maschile abbiano preparato quel passo a lato. Bisogna aver colto il ritmo e la verità dell’intervento di Michelle Obama per sentire la forza dell’autorizzazione di una donna che ne sorregge un’altra in una sfida così alta. Il cambiamento è tale che travolge, migliorandola, la stessa immagine della protagonista.
Sì che proprio Hillary, che durante la sua lunga e tenace carriera ha cercato in ogni modo di neutralizzare la differenza femminile perché non apparisse d’intralcio alla sua ambizione paritaria, si ritrova al centro di una scena che quella differenza non la riduce ma la esalta. Nella città dei padri fondatori non si celebra il rito dell’annessione di una donna al piano più alto del potere maschile: si celebra piuttosto, lo nota acutamente il New York Times, il rito della femminilizzazione della Presidenza. L’immaginario politico volta pagina: se per più di due secoli ha associato l’inquilino dellaCasa Bianca alle virtù virili per eccellenza, forza, coraggio, decisione, adesso c’è bisogno della sensibilità, dell’ascolto, della capacità di tessitura di una donna. E se l’immagine della donna in questione è apparsa fin qui troppo fredda ecco che ci pensano proprio gli uomini a riscaldarla: Bill per primo, il candidato First Gentleman, l’ex presidente più seduttivo della ex First Lady, il marito indisciplinato ma da sempre e per sempre innamorato, che la presenta non come un algido catalogo di competenze ma come un mai sopito oggetto del desiderio, regalandole così l’investitura erotica che le mancava e di cui si sa che un leader, donna o uomo che sia, oggi non può fare a meno.
Arrivata divisa a Filadelfia la famiglia democratica ne esce unita, e ne esce unita proprio in quanto non ha nascosto sotto il tappeto la polvere dei suoi conflitti interni. Non è la prima volta: otto anni fa, ricorda Obama, “Hillary e io eravamo rivali, ed è stata dura, ve lo dico, perché lei è tosta e non molla mai, ma poi abbiamo fatto squadra, perché entrambi sapevamo che in gioco c’era qualcosa di più grande di me e di lei”. Adesso c’è di nuovo in gioco qualcosa di più grande di tutti i giocatori in campo. È l’America plurale e post-razziale di Obama, che non si può lasciare alla revanche bianca e proprietaria di Trump; è il sempreverde American dream, che non si può rovesciare in un American nightmare alimentato dalla paura, e se a Filadelfia lo dice Bloomberg che diventò sindaco di New York dopo l’11 settembre ci si può credere; è l’America di Black Lives Matter, che i muri li vuole abbattere e non innalzare; è l’America di Occupy Wall street, che un formidabile Sanders ha saputo far pesare nella contrattazione con Hillary contro i lasciti neoliberali di Bill; è l’America delle donne che nella prima donna alla Casa Bianca vedono la dimostrazione che non ci sono limiti al desiderio di qualunque donna.
Da questa America un backlash sotto le insegne di Trump è possibile, ma per chiunque ne abbia respirato l’aria è altresì improbabile, salvo che il mondo sia davvero impazzito. Non è vero che le bombe emozionali della destra raggiungano sempre il cuore e la pancia del popolo più della razionalità della sinistra: per una volta, a Filadelphia il cuore ha battuto di più che a Cleveland. Barack Obama, che il suo vice saluta come “uno dei migliori presidenti della nostra storia”, esce di scena con la stessa eleganza con cui c’è entrato, e quando lascia il palco abbracciato a Hillary sembra di nuovo giovanissimo e con una vita davanti, come dodici anni fa.