Solo uno stupro, solo una lapidazione
Il corpo martoriato di Noemi Durini, la sedicenne lapidata – è questa la parola giusta, evidentemente presente non solo nel vocabolario del fondamentalismo islamico – dal suo ragazzo diciassettenne in provincia di Lecce, interrompe come un lampo nella notte il delirio di un’opinione pubblica che da settimane si intrattiene sugli stupri, “indigeni” e “stranieri”, come una platea voyeur davanti a un film pornografico. Ci ricorda, quel corpo, che la violenza più violenta, e sovente più definitiva, arriva sulle donne molto più frequentemente da uomini prossimi, per primi quelli che dicono di amarle, che da uomini lontani per razza, religione o cultura. Un fatto, non una fake, che sta scritto in tutte le statistiche, nonché nell’esperienza quotidiana di centinaia di centri antiviolenza sparsi per il paese. Ma si sa che i numeri, nonché l’esperienza, nulla possono sulle psicosi. E dunque il femminicidio di Lecce non placa il delirio dei giornali e degli onniscienti ospiti dei talk che con un occhio piangono sul cadavere di Noemi e con l’altro ridono soddisfatti perché l’archiviazione dello ius soli ci preserverà dall’invasione di interi popoli di stupratori.
I conti, del resto, sullo stupro e sul femminicidio non tornano mai. Inutile razionalizzare, computare, sezionare un fenomeno che sempre più si manifesta come il risvolto osceno e indicibile non di uno scontro fra civiltà, ma di una crisi di civiltà che travalica qualsiasi confine, etnico o politico, culturale o geopolitico che sia. Reati universali, in un mondo che sa concepire solo l’universalismo della merce e ha seppellito nei campi dei profughi quello dei diritti fondamentali. Reati sessuali, in un mondo che fa della parità di genere una bandiera progressista e dove la differenza fra i sessi, rimossa come principio di apertura all’altro, come ogni rimosso ritorna, ma nella forma barbara della sopraffazione di un sesso sull’altro. Per queste ragioni non ci stanchiamo di ripetere, noi donne, che uno stupro è uno stupro e un femminicidio è un femminicidio, a qualunque latitudine, con qualunque colore della pelle, in qualunque alfabeto, o analfabeto, vengano perpetrati.
La platea voyeur, titillata dai media, fa il contrario. Seziona, conta, particolarizza; derubrica o enfatizza, secondo i casi. E caso vuole che oggi, in Italia, sotto i colpi di una “emergenza immigrazione” tutta inventata – di nuovo, i dati parlano, ma nulla possono contro le psicosi – il caso sia dettato dalla razza. Esistono ormai stupratori di serie A, stranieri rifugiati e clandestini, e stupratori di serie B, indigeni. Stupratori efferati, i primi, come a Rimini, e stupratori “trascinati”, come a Firenze. Popoli stupratori, che fanno la regola, e mele marce, che fanno l’eccezione. Stupri da raccontare nei più squallidi dettagli, tipo come funziona la sabbia nella “doppia penetrazione” illustrata da Libero sul caso Rimini, e stupri su cui stendere la copertina pietosa del decoro dell’Arma e dello stato, come nel caso di Firenze. Vittime da trattare con qualche riguardo, se bianche, occidentali, perbene, e vittime da violentare una seconda volta, sui giornali, sfregiandone la privacy, se polacche o di chissà dove, precarie, o magari prostitute non per scelta ma per forza.
In gergo sociologico si chiama razzializzazione della violenza sessuale (del resto, come stupirsi? Viviamo in un paese in cui un delinquente è un delinquente, ma se è nato a sud diventa tutt’ora, nei titoli dei giornali, un calabrese o un siciliano). Più crudamente significa due cose. La prima: che i maschi italiani scaricano sui maschi “stranieri” quello con cui non riescono a fare i conti in se stessi, o nel loro vicino di casa, o perfino – come a Lecce – nei loro figli. La seconda: che quella che è in corso non è solo una guerra fra i sessi, in cui le donne pagano un prezzo implacabile per la loro libertà. È anche e in primo luogo una guerra fra uomini che si gioca, come sempre da Elena di Troia in poi, sul corpo delle donne. Guerra per la conquista della donna (che si immagina) d’altri, guerra per la difesa della donna (che si vorrebbe) propria: in questo senso, anche questo l’abbiamo detto cento e mille volte, tutti gli stupri sono stupri etnici.
Senonché è proprio sulla difesa delle “proprie” donne che il trucco c’è e si vede: la maschera è crollata in quel di Firenze, male incollata sulle facce dei due carabinieri che no, non hanno stuprato nessuna, si sono solo concessi una sveltina con due ragazze easy, senza accorgersi che – come direbbe il sindaco – erano un po’ sballate. Lasciamo perdere il coro ridicolo levatosi contro le “mele marce” solo per sottolineare la buona salute di un albero che tanto sano non è, se appena si rammenta il ruolo giocato da altre mele nello scandalo Marrazzo, o nell’inchiesta Consip, o per le strade di Genova nel 2001, per citare tre esempi diversissimi fra loro. E lasciamo perdere pure le retoriche sul decoro dell’Arma e l’onore lesionato dei nostri eroi che ci difendono in casa e in terra straniera, profuse a man bassa per sfuggire, di nuovo, al punto indicibile, che è il seguente.
Alla fine di un’estate vissuta solo e soltanto all’insegna della sicurezza, di una sicurezza “esternalizzata” nei campi libici per difendere i confini nazionali dall’invasione migrante ed esercitata all’interno a suon di sgomberi per difendere il decoro urbano da occupanti migranti e indigeni, due uomini delle forze dell’ordine che stuprano due studentesse e poi fanno finta di niente non sono due mele marce. Sono il sintomo parlante di uno stato che la sicurezza non sa cosa sia né dove stia, e che – di nuovo – proietta il problema altrove e su altri gridando all’emergenza perché non sa o non vuole garantirne i termini minimi nella vita quotidiana di un paese in cui i taxi di notte non rispondono alle chiamate, le strade sono buie e se denunci un fidanzato violento di tua figlia nessuno ti sta a sentire. Una sovranità lesionata e impotente, che eleva muri e confini per nascondere le proprie crepe, nel silenzio assordante di un’intera classe dirigente che delega il caso “per competenza” alla sola ministra Pinotti, e nel rumore altrettanto assordante di un giornalismo sempre peggio ridotto. Uno stupro è solo uno stupro, un femminicidio è solo un femminicidio: qualche titolo, poi passano.