Montanelli l’intoccabile
Nel dicembre del 1998 la rivista Italia contemporanea pubblicò, e il Manifesto e la Repubblica anticiparono (entrambi il 19 di quel mese), alcune lettere inedite scritte nel 1954 da Indro Montanelli – all’epoca giornalista del Corriere della Sera e collaboratore del Borghese – all’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, nominata da Dwight Eisenhower nel 1953 (malgrado la contrarietà di Alcide De Gasperi e i dubbi del segretario di stato americano) grazie all’impegno profuso con suo marito (il magnate dell’editoria Henry Luce, proprietario di Time e Life) nella campagna elettorale presidenziale a fianco del senatore McCarthy. Personaggio tanto mondano quanto mediocre, la neoambasciatrice diventa subito una paladina oltranzista dell’ingerenza diretta degli Stati Uniti sul governo italiano per spostarne l’asse a destra, contro i “bizantinismi” della Democrazia cristiana di De Gasperi e Scelba che si mostrano insensibili alle sue pressioni per mettere fuori legge il Partito comunista italiano. E intreccia legami con la destra italiana più conservatrice e anticomunista, da Rodolfo Pacciardi a Gesualdo Barletta all’entourage del Borghese di Leo Longanesi.
In Italia si è appena insediato il governo Scelba–Saragat, in un quadro politico destabilizzato dalle elezioni del 1953, dalle quali la Dc di De Gasperi è uscita indebolita come l’intera coalizione centrista, i socialisti e i comunisti rafforzati, la destra monarchica e missina consolidata. Il centrismo non è più una formula politica autosufficiente, deve aprirsi verso destra o verso sinistra; e alla destra più conservatrice la Dc comincia a sembrare un referente inaffidabile, troppo poco atlantista e troppo fedele al patto costituzionale, troppo poco liberista e troppo statalista, troppo poco zelante nella repressione del pericolo comunista.
È in questo contesto che nasce la corrispondenza fra Clare Luce e Montanelli. Convinto che l’Italia versi ormai “in uno stato preagonico” (questa e le prossime citazioni sono testuali), cioè che la vittoria elettorale dei comunisti o di un non meglio precisato fronte popolare sia alle porte, Montanelli si fa sostenitore presso l’ambasciatrice della costruzione di una organizzazione “terroristica e segreta”, composta da “centomila bastonatori” reclutati “secondo la tecnica comunista delle cellule”, graditi ai carabinieri, cementati dall’anticomunismo e preferibilmente fascisti e monarchici, uniti da una bandiera e sotto il comando di un apposito capo. Sponsorizzata (particolare non irrilevante) da una parte dei vertici confindustriali, questa organizzazione dovrebbe avere l’aiuto (“non platonico”: armi, aviazione, flotta) degli Stati Uniti, entrare in azione in caso di vittoria elettorale dei comunisti, aiutare o fare in proprio un colpo di stato con relativo scatenamento di una guerra civile “allo scopo di inchiodare l’Italia nell’Alleanza atlantica”. Qualora questo piano insurrezionale fallisse, il suo ideatore riterrebbe utile un concentramento di forze in Sicilia per preparare la riscossa sotto l’ala di un nobile locale in ottimi rapporti con la mafia.
Ruoli e feticci
Questo è l’uomo che il comune di Milano ha voluto immortalare in una statua, che l’establishment giornalistico di oggi considera intoccabile anzi “sacro”, che il presidente del consiglio ritiene giusto tutelare dalla “furia iconoclasta” e dall’“oltraggio alla memoria di persone che hanno avuto un ruolo nella nostra storia culturale, civile, politica, istituzionale”. Che nella storia nazionale Montanelli un ruolo in effetti l’abbia avuto è indiscutibile: ma quale? È lecito porsi e porre questa domanda senza peccare di lesa maestà? Davvero quel ruolo va difeso e tutelato dalla dissacrazione di quante e quanti oggi dipingono di rosa e di rosso la sua statua e ne chiedono la rimozione? E quella corale difesa che si leva da allievi e ammiratori dell’intoccabile che cosa difende davvero?
Al centro delle polemiche di oggi c’è il Montanelli del 1936, l’ufficiale fascista che parte per la campagna d’Etiopia, si prende in affitto (“era un leasing”, parole sue) Destà, una schiava (“una scimmietta”, la chiama lui) dodicenne infibulata e, “faticando a superare il suo odore”, ne fa uso e abuso sessuale facendosi aiutare dalla madre di lei a “demolirla”, ovvero a sfondarne l’infibulazione. La circostanza, più volte confermata dallo stesso Montanelli senza un’oncia di rimorso, pentimento e nemmeno ripensamento, unisce due gravi fattispecie di reato, la compravendita di un essere umano e lo stupro di una minorenne, ed è corredata e corroborata da un cospicuo numero di successive dichiarazioni dallo stesso Montanelli sulla superiorità della razza bianca su quella nera, a sostegno e legittimazione dei propri trascorsi africani.
A chiunque abbia un grano di sale nel cervello la vicenda non può che suonare raccapricciante, e a me pare perfino gentile il gesto di reagire al raccapriccio dipingendo di rosa la statua milanese come hanno fatto un anno fa e di nuovo pochi giorni fa alcuni gruppi femministi: più un atto di solidarietà e di giustizia differita verso la vittima che una furia iconoclasta verso lo stupratore. Un paese civile quel gesto lo avrebbe raccolto come il risarcimento di una ferita, invece di respingerlo come un’aggressione a mano armata. E degli uomini consapevoli non dico di sé, che sarebbe troppo chiedere, ma del mondo in cui vivono e che oggi si rivolta per ogni dove sia contro la violenza sessuale sia contro la violenza razziale avrebbero colto l’occasione per chiedere scusa a nome dell’intoccabile invece di difenderlo come un feticcio.
Com’è potuto accadere che Montanelli sia diventato un’icona liberaldemocratica?
Al posto di che cosa sta quel feticcio? Di un’autorità paterna svaporata, e compensata con l’aura inventata di un personaggio modesto e sopravvalutato? Di un complesso di minorità irrisolto, e coperto con la venerazione di un maestro? Di un crampo misogino che periodicamente e ostinatamente torna a tentare di barrare l’accesso alla sfera pubblica di donne che osano contestare le icone del virilismo? Di una autoreferenzialità del ceto giornalistico, incapace di registrare i cambiamenti della realtà, cioè di fare quello che sarebbe il suo mestiere? Di un malinteso senso dell’intoccabilità del passato, ignorante del fatto che il passato è sempre oggetto di disputa, ogni qualvolta nuovi soggetti lo interrogano dal loro punto di vista nel presente? O forse di un’arrogante pretesa di detenere pro domo propria il monopolio della revisione della storia?
Torniamo infatti al Montanelli del 1954, quello delle lettere a Clare Luce, e al Montanelli del 1998, quando quelle lettere vengono ritrovate nella biblioteca del congresso americano. Il Montanelli che nel 1954 fantastica di un’organizzazione “terroristica e segreta” e armata da scatenare contro un’eventuale vittoria del Pci, lo fa ispirato non solo dalla fobia anticomunista, ma anche dalla diffidenza per le forme della democrazia e dall’insofferenza per il patto costituzionale. La Dc – che infatti Montanelli usava votare “tappandosi il naso” – gli appare inaffidabile precisamente perché poco propensa a sacrificare quel patto, siglato anche con il Pci, alla fedeltà atlantista dell’Italia. Da qui il suo dilemma, messo nero su bianco nell’epistolario e risolto a favore della seconda ipotesi: “Difendere la democrazia fino ad accettare la morte dell’Italia; o difendere l’Italia fino ad accettare, o anche affrettare, la morte della democrazia?”. Una posizione che oggi definiremmo a buon diritto sovranista e illiberale. Domanda: com’è potuto accadere che su questi presupposti Montanelli sia diventato, per l’establishment di centrodestra e di centrosinistra, un’icona liberaldemocratica?
Quando anticipai sul Manifesto la scoperta di Italia contemporanea, il 19 dicembre 1998, la costruzione di questa icona era già in corso. E infatti sul Montanelli del 1954 scattò la stessa difesa sull’attenti che scatta oggi sul Montanelli del 1936, con la stessa derubricazione rassicurante dei fatti e dei misfatti che scatta oggi. Su entrambi i fatti è stato il protagonista stesso a dettare la linea, minimizzandoli senza smentirli né rinnegarli né scusarsene. Sul caso Destà, com’è stato ricordato in questi giorni, nel corso del tempo Montanelli se l’è cavata dicendo che il madamato era pratica corrente e diffusa, che non fu uno stupro ma un leasing, che Destà gli voleva bene tanto da dare il suo nome a un figlio: dove sarebbe lo scandalo?
Sui fatti del 1954, intervistato nel 1998 dagli storici che li avevano portati alla luce, rispose che il suo progetto – che secondo quanto aveva scritto nelle lettere avrebbe dovuto “aiutare o fare in proprio un colpo di stato” –, in realtà serviva “non per fare il golpe, assolutamente no, ma per essere pronti a una nuova resistenza”, contro il Pci stavolta: di nuovo, dove sarebbe lo scandalo? Tanto bastò infatti per rassicurare, all’epoca, la stampa mainstream: non era un piano golpista ma un progetto di resistenza anticomunista, e in nome dell’anticomunismo si può perdonare anche l’elogio della nazione contro la costituzione. Dalla caduta del muro di Berlino erano passati dieci anni, dal tracollo della cosiddetta prima repubblica pochi di meno e le patenti liberaldemocratiche si rilasciavano – e tuttora si rilasciano – così. La patente rilasciata a Montanelli ha avuto per di più il timbro congiunto del berlusconismo, che ha sdoganato la cultura di destra e avallato la concezione di una democrazia post, extra e anticostituzionale, e quello dell’antiberlusconismo, cui è bastato un no del giornalista al cavaliere per arruolarlo nelle proprie fila.
Non è vero che le statue servono solo a ricordare una persona e a preservare un pezzo del passato. Hanno anche un valore performativo: danno autorità a chi rappresentano e autorizzano valori e comportamenti per il presente e per il futuro. Rispetto ai fatti del 1936, difendere la statua di Montanelli significa continuare a dire, non solo per il passato ma anche per il presente e il futuro, che approfittare sessualmente di una schiava bambina nera è un comportamento plausibile, una svista secondaria di gioventù in una biografia che ne resta illesa; significa condonare e rilegittimare, per il presente e per il futuro, sessismo e razzismo come posture ininfluenti rispetto al giudizio morale e politico; significa avallare i deliri di uomini politici di destra che dall’alto delle istituzioni in cui sono stati ahimè democraticamente eletti sostengono oggi che il fascismo “non era razzista ma portò la civiltà in Africa”, come ha fatto di recente il presidente del consiglio regionale della Calabria. Rispetto ai fatti del 1954, che peraltro in queste settimane nessuno o quasi ha ricordato, difenderla significa assecondare l’idea che la democrazia si può presidiare scagliando un’organizzazione “terroristica e segreta” contro l’eventuale vittoria elettorale legittima di uno dei contraenti del patto costituzionale.
Altro che un presidio della storia e della memoria, quella statua è un monumento alle letture revisioniste della storia italiana che assolvono, o rivalutano, il fascismo, e svalutano l’antifascismo in nome dell’anticomunismo. Contestarla significa, insieme, portare alla luce le rimozioni dell’inconscio italiano – come titolava un bel film di Luca Guadagnino sull’avventura in Etiopia – di epoca coloniale, e combattere l’operazione di sradicamento della democrazia italiana dalla matrice antifascista della costituzione portata avanti tenacemente dal mainstream liberale durante la cosiddetta seconda repubblica. Verniciarla di rosa è un modo fin troppo gentile di segnalare che non ha nulla, ma proprio nulla, da insegnarci, né sul passato né sul futuro, se non ciò che non siamo e che non vogliamo.