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L’esperimento italiano

Il presidente della repubblica Sergio Mattarella e il nuovo governo al Quirinale, Roma, 13 febbraio 2021. (Paolo Giandotti, Presidenza della repubblica/Reuters/Contrasto)

La prima ad adeguarsi al tempo nuovo è la pubblicità. “Welcome back, future!”, recita lo spot della nuova Fiat 500 con Leonardo Di Caprio testimonial d’eccezione. L’uscita dalla pandemia, Mario Draghi dice bene, non sarà come riaccendere la luce, ma intanto la grande impresa prepara gli interruttori perché il futuro sarà ecosostenibile o non sarà. Certo è strano che in Italia il Green new deal non si materializzi nella sagoma di una Alexandria Ocasio-Cortez come negli Stati Uniti bensì in quella di un governo con l’età media più alta di quello precedente, presieduto e impreziosito da competenze e orientamenti immancabilmente e implacabilmente risalenti al mondo e all’establishment pre-pandemico. Ma l’Italia funziona con le rivoluzioni passive, non con i cambiamenti attivi. E il futuro deve accontentarsi ancora una volta di essere una promessa con dedica alla next generation, tanto impegnativa quanto ancora una volta non inclusiva.

L’era Draghi si apre al senato con 262 sì su 305 presenti e 304 votanti, alla camera con 535 sì, 56 no e 5 astenuti, un’ampiezza di consensi e un’esiguità di opposizione con pochi precedenti nella storia repubblicana. Il mal di pancia del Movimento 5 stelle è passato con un Maalox lasciando sul campo una trentina di parlamentari dissenzienti in attesa di espulsione, perché il Movimento “deve evolversi”, come dice qualcuno, e si sa che il darwinismo, sociale o politico che sia, fa sempre le sue vittime. Giorgia Meloni vivrà di rendita continuando ad agitarsi fuori dal recinto, ma nessuna rendita garantita si prospetta invece per l’unica voce, di Nicola Fratoianni, che dice di no da sinistra.

Tra il rosario degli interventi e le sanificazioni passano due giornate di dibattito parlamentare lunghe e noiose con poco o niente di memorabile, non fosse per Teresa Bellanova e Maria Elena Boschi che rivendicano a Italia viva il capolavoro politico della nascita del nuovo governo e per alcune pentastellate che al contrario rivendicano intera e intatta l’eredità del Conte 2. “Le vedove di Conte” le chiama qualcuno sui social, in sintonia con le altre etichette appioppate sui giornali e in tv al governo degli “scappati di casa” o dell‘“avvocaticchio del sud”: prove della svolta squisitamente elitista, cafona come tutti gli sfoggi di stile delle élite, tipo la scena del martini dry ne Il fascino discreto della borghesia, che contrassegna l’inchino dei media mainstream al cambio di stagione.

Draghi riesce a dare un senso alla surreale compagnia che lo sostiene verniciandola di repubblicanesimo

Mario Draghi snocciola finalmente il suo programma dopo giorni di silenzio osannato sulla stampa come riservatezza – e perfino come segretezza che non è precisamente un attributo della democrazia – e dopo due giri di consultazioni in cui a quanto pare di programma non s’era mai parlato: ci sono doni che si prendono a scatola chiusa. Rotto il silenzio, il presidente del consiglio non nasconde né l’emozione né la solennità del momento. Sull’emozione non c’è da dubitare, perché governare un paese effettivamente è diverso che governare una banca, per quanto centrale ed europea. Sulla solennità di una Nuova Ricostruzione (con le maiuscole) analoga a quella del dopoguerra invece qualche dubbio c’è. Intanto perché non usciamo da una guerra mondiale né da una guerra civile ma da una pandemia, che non è meno grave ma è una cosa diversa, e magari richiederebbe qualche parola in più di quelle che Draghi prende a prestito da papa Francesco sulle colpe del modo di produzione. E poi perché nel 1945 a unirsi furono tre grandi tradizioni politiche radicate nella cultura popolare, mentre oggi sono partiti malmessi e senza radicamento, sormontati da una corona, nel senso regale del termine, di tecnici più politicamente attrezzati dei politici.

Del resto, a riprova di quanto la distinzione fra tecnici e politici sia mal posta, è proprio sul piano della navigazione politica che il nuovo presidente del consiglio se la cava bene. Pianta tre bei paletti a Matteo Salvini (il sovranismo impossibile, l’euro irreversibile, la progressività da preservare), dà uno scappellotto a Roberto Speranza sulla tempistica delle regole di contenimento del contagio, scavalca Nicola Zingaretti a sinistra – o a destra, dipende – sulla parità di genere. Soprattutto, riesce a dare un senso alla surreale compagnia che lo sostiene verniciandola di repubblicanesimo, lo spirito necessario per fare fronte all’emergenza.

Ma Draghi non è lì solo per fronteggiare l’emergenza: per questo bastava Conte. E nemmeno solo per guidare la ripartenza. È lì per dimostrare che l’emergenza può diventare l’occasione per un nuovo ordine, e che dalla pandemia l’Europa, non solo l’Italia, può uscire riconvertendo in qualche modo la filosofia economico-politica sulla quale è nata e cresciuta. L’Italia è il laboratorio di questo esperimento, che non può fallire pena il fallimento dell’Unione e che non prevede nessuna logica dei due tempi ma un tempo solo. Ne discende un programma di governo tutto incardinato sulle direttive europee, che inanella transizione ecologica, transizione digitale, formazione delle giovani generazioni, investimenti in ricerca, infrastrutture, 5G e intelligenza artificiale, ricostruzione del sistema sanitario (vittima eccellente del neoliberismo, ma questo Draghi non lo dice), riforme del fisco, della giustizia civile, della pubblica amministrazione. In un ineccepibile stile less is more che d’incanto seduce un giornalismo fino all’altro ieri votato alla cacofonia barocca, tutto torna. O così sembra.

Invece no, perché nel less is more risalta quello che c’è, ma conta anche quello che non c’è. E troppe cose non ci sono. Il cambiamento radicale del modello di sviluppo che una vera transizione ecologica richiederebbe. I costi sociali ineluttabili della digitalizzazione e della riconversione industriale. I costi culturali di una riforma dell’istruzione e della formazione tutta funzionalizzata a questa riconversione. Le inversioni di rotta indispensabili per invertire il pur deprecato aumento delle disuguaglianze. Le prospettive per il sud – un eclatante buco del programma, già annunciato dalla composizione della squadra di governo – ancora una volta ridotte alla bonifica di un ambiente criminale per definizione e poco attrattivo per gli investimenti rigorosamente privati. Il destino degli invisibili e degli essenziali. Il tasto sensibile della giustizia penale, i criteri effettivi in cui tradurre la progressività fiscale. La sanità territoriale ma non si sa se pubblica o privata, la casa come “primo luogo della cura”, ma non si sa se grazie più alla telemedicina o al lavoro femminile. Del resto il linguaggio, come sempre, non mente: e tra le persone chiamate capitale umano, i beni comuni naturali chiamati capitale ecologico, il salvataggio dei lavoratori ma non dei lavori, i diritti dei rifugiati ma non dei migranti, la parità di genere come parità di condizioni competitive, siamo sempre in pieno lessico ordoliberale. La filosofia europea si riconverte, per l’appunto, ma non cambia.

L’Italia ridiventa un laboratorio politico, il case study di questa riconversione ordoliberale. Che però, checché ne dicano i talk show, non ha per oggetto il disciplinamento del ceto politico ma quello della società. Nel frattempo, a voler cercare metafore, il virus si riproduce per variazioni imprevedibili, tanto per ricordarci che in cielo e in terra ci sono sempre più cose di quante qualunque filosofia ordinatrice possa sognare.

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