Il poeta nigeriano Chuma Nwokolo all’Hargeisa book fair. (Foto di Igiaba Scego)

La donna indossa un velo colorato, ha una faccia segnata dal tempo e dal dolore, ma i suoi modi sono garbati, dolci.

Hooyo”, mi dice con la voce di una bambina cresciuta. “Siediti qui. Così parliamo”.

Hooyo in somalo significa madre, ma non è raro che una donna si rivolga ai più giovani, a coloro che vede un po’ come figli, con questa parola che è tra le più dolci della lingua somala.

Mi siedo sullo sgabello che la signora mi ha avvicinato e accanto si siede il mio collega Graziano Graziani che prontamente tira fuori dal borsello il suo registratore con le orecchie da topo. Siamo ad Hargeisa, capitale del Somaliland, stato che nel 1991 si è separato dalla Somalia. L’indipendenza è stata proclamata, ma nessuno riconosce di fatto questo stato. Una situazione paradossale in un quadro geopolitico, quello dell’Africa orientale, alquanto in subbuglio. L’occasione del mio stare lì è l’Hargeisa book fair, una fiera del libro e del teatro che si svolge nella cittadina ormai da sette anni nel mese di agosto.

Il collega aziona il registratore. La donna comincia a parlare. La nostra idea è di fare un audiodoc con le voci raccolte nel e al margine di questo importante festival culturale africano. Però nessuno, nemmeno la mia conoscenza approfondita dell’area e delle sue problematiche, mi ha preparato alle parole che sto per sentire.

La voce della donna non trema mai, c’è solo una dignità assoluta che la avvolge. È precisa, dettagliata nello spiegare ciò che ha attraversato la sua esistenza. Ci racconta della pallottola che le è entrata in testa durante la guerra lanciata da Siad Barre nel 1988 (il dittatore somalo ha di fatto aperto, proprio ad Hargeisa, le danze di quello che poi diventerà una ventennale guerra civile in tutta la Somalia), dei 18 mesi in ospedale dove non poteva ingoiare nessun cibo solido, ci racconta del figlio e del viaggio che lui ha intrapreso verso il Mediterraneo, l’Europa tanto ambita.

La sua voce ha un sussulto quando pensa al figlio, ai debiti che ha fatto per lui quando i predoni libici hanno chiesto un riscatto per la sua liberazione: “Non finirò mai di pagare quel debito”. E poi c’è il nipote che nel Mediterraneo è morto. La donna non dice morto. Dice “la barca se l’è mangiato”. Io traduco meccanicamente, ingarbugliandomi non poco. Devo riferire al collega, ma non ce la faccio. Ogni parola è un macigno. Vedo la barca che si mangia il ragazzo. Sento la donna che racconta dell’ultima cena che ha preparato al nipote: il piatto, il cibo che si fredda, l’attesa, la consapevolezza che quel ragazzo non tornerà mai più.

I ragazzi che fanno il tahrib, così si chiama il viaggio verso l’Europa, verso Lampedusa, scappano dai genitori e dagli adulti. Non dicono nulla. Si avventurano verso l’ignoto a pancia vuota, nel segreto dei loro sogni. Tahrib è la parola che sento pronunciare di più ad Hargeisa. I giovani vogliono partire per i più svariati motivi. Vogliono un lavoro, un futuro, una famiglia, studiare, un amore. Non ci sono per loro divertimenti, svaghi, orizzonti, futuro. Ci sono iniziative meritevoli, come la costruzione dell’Edna Adan Ismail hospital, parecchie ong che lavorano sul campo, ma ecco non basta. La città è pacificata, non c’è’ la guerra continua che attanaglia il resto della Somalia, si circola bene, ma la disoccupazione è alta, l’inquinamento pure, la gente non vede prospettive e poi gli echi di scaramucce che vengono da Las Anod preoccupano.

Un ragazzo parecchio arrabbiato mi dice “che i ricchi ci stanno prendendo anche i campetti da calcio per costruirci sopra le loro ville”. C’è tanta frustrazione in giro. Diseguaglianze sociali che aumentano. Ma è proprio sulla frustrazione quella su cui sta lavorando Jama Musse Jama, organizzatore dell’Hargeisa book fair e intellettuale che ha studiato in Italia, esattamente a Pisa. Jama come Martin Luther King ha un sogno: dare speranza alla sua città, alla sua gente, ai tanti giovani disperati che sognano l’Europa.

La speranza, si è detto, può venire solo dalla cultura. Sette anni fa fare un festival di letteratura in questa zona di mondo era un azzardo. Oggi un successo monitorato da New Yorker, Bbc, Cnn. Giovani e meno giovani affollano la casa del lavoratore (Guriga Shaqalaha) dove si tengono gli incontri. Qui i vari ospiti dialogano con un pubblico attento e partecipe. Le ragazze avvolte in foulard psichedelici fanno domande che solo ieri non avrebbero azzardato. Alcuni incontri, come quello con lo scrittore somalo di lingua inglese Nuruddin Farah, creano tensione tra il pubblico. Nuruddin mette il dito sulla piaga e dice che le relazioni tra uomini e donne tra i somali sono ancora “crudeli”. Le donne applaudono a scena aperta, alcuni uomini (i più anziani) borbottano indispettiti. Si discute, a bassa voce, ad alta voce, con gioia, con rabbia.

Si susseguono gli ospiti, le parole, i ritmi. Il poeta nigeriano Chuma Nwokolo porta la sua solennità sognante, il reporter del New Yorker Jon Lee Anderson la sua esperienza nei conflitti più disparati, Hadrawi (considerato lo Shakespeare somalo) i suoi versi cristallini. Si parla di tutto e con tutti. Molto spazio ha la tradizione orale, i balli e i canti delle donne. I corpi si muovono all’unisono, alla ricerca di orizzonti nuovi. E anche il teatro, con la sua ricostruzione della vita rurale, parla delle disgrazie avvenute negli ultimi anni. Ma il teatro sa far anche sorridere, le battute si sprecano e una iena impertinente (in realtà a torso nudo) fa rotolare tutti dalle risate.

Guardo il pubblico. La partecipazione emotiva è alta, gli incontri sempre pieni. Dov’è la scena? Mi chiedo stupita. Sul palco o in platea? Jama Musse Jama però quest’anno ha superato se stesso. Ha inaugurato (grazie all’aiuto degli altri organizzatori tra cui è bene ricordare la grande hooyo del festival Ayan Mahamoud) una biblioteca, la prima di Hargeisa. Uno spazio dove la popolazione potrà leggere libri in somalo o in inglese. Guardo i libri. Ci sono saggi sulla storia della Somalia, il Diario di Anna Frank, l’Iliade, ma c’è anche una traduzione in somalo della Fattoria degli animali di Orwell.

Possono i libri costruire futuro? La domanda mi ronza in testa da un po’. Non ho una risposta, ma guardo Jama e lui sembra crederci. E allora ci credo anch’io. E la felicità forse è tutta qui. Lunga vita all’Hargeisa book fair, gli auguri se li merita davvero.

Igiaba Scego è una scrittrice italosomala. In Italia ha pubblicato La nomade che amava Alfred Hitchcok (Sinnos 2003), Rhoda (Sinnos 2004), Oltre Babilonia (Donzelli 2008), La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010) e Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse maggio 2014), scritto con Rino Bianchi.

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