Quando erano gli europei a fuggire sui barconi
Hiddensee è un’isola sul mar Baltico. Quando ancora c’era il muro di Berlino quel nome era leggendario. Si andava lì per sfuggire alla vita sotto una dittatura. Lo scrittore tedesco Lutz Seiler nel suo romanzo Kruso (Del Vecchio Editore) descrive bene l’atmosfera dell’isola, dove scrittori, artisti e intellettuali dell’allora Repubblica Democratica Tedesca decisero di autoesiliarsi nell’attesa di un futuro qualsiasi. E poi c’era la Danimarca, l’occidente, a un passo. Sono stati in molti ad aver tentato di raggiungere la libertà attraversando lo stretto braccio di mare che divideva i due paesi. Si tentava la traversata con mezzi di fortuna o addirittura nuotando. Erano in molti ad annegare.
Il parallelismo tra i naufraghi di Hiddensee e quelli del Mediterraneo è quasi ovvio. Lutz Seiler non a caso parla di “spariti”, ovvero di tutte quelle persone che non hanno lasciato traccia di sé. Kruso ci ricorda che la fuga, l’esilio, la ricerca d’asilo, sono qualcosa che gli europei (e non solo quelli dell’est) hanno già vissuto sulla loro pelle attraverso i secoli. Qualcosa che però l’Europa preferisce scordare.
Oggi i rifugiati hanno la pelle nera dei somali o degli eritrei, lo sguardo fiero dei siriani, la tenacia degli afgani. Ma un tempo a fuggire sono stati i genovesi, i veneziani, i fiorentini; si scappava dalla Germania, dalla Spagna, dalla Francia. I motivi della fuga, sempre gli stessi: una guerra, una persecuzione, una condanna, un editto di espulsione.
L’attivista afroamericana Angela Davis ha dichiarato di recente che il movimento dei rifugiati è il movimento di lotta del ventunesimo secolo. La sfida di un’utopia al capitalismo globale. Ma a ben vedere è sempre stato così.
England’s immigrants 1330-1550 è una ricerca storica che lavora per recuperare la memoria delle migrazioni europee del passato e dei mille esili che hanno attraversato la storia del continente. Il progetto – nato dalla collaborazione tra l’università di York, i National archives e l’Humanities research institute dell’università di Sheffield – mira a catalogare la presenza dei migranti e dei rifugiati in Inghilterra in un’epoca turbolenta, che ha visto l’Europa impegnata nella guerra dei cent’anni e successivamente in quella delle rose, e dove la peste nera aveva mietuto migliaia di vittime.
Attraverso il registro delle tasse (spesso gli stranieri dovevano pagare tasse particolari o richiedere lettere di protezione per rimanere nel paese) e un lungo lavoro negli archivi territoriali si è potuti risalire alle origini e ai mestieri dei migranti. La ricerca, oltre ad avere un valore storico, si inserisce in un dibattito sul presente che tocca temi come la multietnicità e l’identità nazionale. I promotori di England’s immigrants, sottolineando le dovute differenze con il presente, hanno voluto dimostrare come i flussi migratori abbiano fatto sempre parte dell’umanità, soprattutto quando sono state forti le spinte di espulsione dai paesi di origine.
L’esperienza dell’esilio e della fuga sono al centro dell’esperienza europea. Basti pensare alle numerose opere letterarie su questo argomento. Dante Alighieri, per fare solo un esempio, era di fatto un rifugiato, cacciato dalla sua Firenze. Sarà proprio lui a condensare in pochi versi l’esperienza dell’esule:
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
In epoche più recenti altri scrittori si sono cimentati con questo tema, sia per averlo vissuto in prima persona sia per esserne stati semplicemente testimoni. Il romanzo Transito di Anna Seghers (testo vergognosamente fuori catalogo) comincia con un naufragio:
Sembra che la Montréal sia affondata fra Dakar e la Martinica. Che abbia urtato contro una mina. La compagnia transatlantica non dà informazioni. Forse è solo una voce. Confrontato col destino di altre navi cacciate con il loro carico di fuggiaschi attraverso tutti i mari, e mai accolte in porto, lasciate bruciare in alto mare per evitare che gettassero l’ancora e forse solo perché i documenti e i passeggeri erano scaduti da pochi giorni; confrontato col destino di queste navi, il naufragio della Montréal, in tempo di guerra, appare una morte naturale. Sempre che nel frattempo la nave non sia stata catturata o rimandata a Dakar. In questo caso i passeggeri staranno abbrustolendo in qualche campo di concentramento ai margini del Sahara.
Siamo a Marsiglia, una folla di tutte le nazionalità sta fuggendo dalle armate tedesche che hanno occupato mezza Europa. I nazisti fanno paura. Ed ecco che artisti, antifascisti, ebrei, anarchici e rivoluzionari s’aggirano tra consolati e cattive compagnie per trovare un biglietto, un visto per le Americhe e abbandonare l’Europa con il suo carico di miseria. Marsiglia è la Lampedusa di allora. Siamo nel 1940 e quella città Anna Seghers la conosceva bene, anche lei aveva vissuto la stessa angoscia dei suoi personaggi prima di riuscire a partire per Città del Messico. Anche lei con la costante paura di essere imprigionata dalle guardie che chiedevano esosi riscatti ai fuggiaschi.
Lisbona era un’altra Lampedusa. Lo scrittore tedesco Erich Maria Remarque, noto per il suo romanzo sulla grande guerra Niente di nuovo sul fronte occidentale, fu costretto all’esilio dopo che le sue opere furono messe al bando nella Germania nazista. Cercò prima riparo in Svizzera e poi, nel 1939, negli Stati Uniti. Nel romanzo La notte di Lisbona (Neri Pozza) scrive:
La nave si preparava al viaggio come se fosse un’arca al tempo del diluvio. Era infatti un’arca. Tutte le navi che in quei mesi del 1942 lasciavano l’Europa, erano arche. Il Monte Ararat era l’America e le acque montavano di giorno in giorno. Da un pezzo avevano inondato la Germania e l’Austria e si erano addentrate in Polonia e a Praga; Amsterdam, Bruxelles, Copenaghen, Oslo e Parigi erano già sommerse, le città italiane erano esposte alle fetide ondate e anche la Spagna era ormai poco sicura. La costa portoghese era l’ultimo rifugio dei fuggiaschi per i quali giustizia, libertà e tolleranza contavano più che la patria e l’esistenza.
Oggi si scappa da Damasco, da Palmyra, da Baghdad, da Asmara, da Mogadiscio. Il destino dell’esule è segnato dal cammino, dal viaggio. L’Europa, che oggi sembra sorda ai richiami dell’umanità, un tempo ha vissuto la stessa disperazione.
Penso al regista teatrale Giorgio Strehler che durante la seconda guerra mondiale si rifugiò in Svizzera e adottò il cognome della nonna francese Firmy. O anche a Billy Wilder in fuga dal nazismo, che grazie alla sua cultura mitteleuropea cambiò il modo di fare cinema a Hollywood. Nel mondo tanti hanno condiviso l’esperienza di essere costretti a fuggire dal proprio paese. Einstein era un rifugiato, Ovidio era un rifugiato. Roma è nata (almeno per il mito) grazie alla discendenza di un rifugiato di nome Enea. E nella lista potremmo annoverare Victor Hugo, Freddie Mercury, Henry Kissinger, Madeleine Albright. E, perché no, anche Superman: il supereroe veniva infatti da un pianeta esploso, perduto per sempre, di nome Krypton.
L’Europa però sembra aver dimenticato la storia, quando erano i suoi cittadini a prendere i barconi. Il discorso oggi si perde spesso nei cavilli di una burocrazia troppo lontana dall’umano. Ma basta guardare un quadro come il Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio per ritrovare un po’ di speranza. La madonna a capo chino, Gesù addormentato sul grembo materno e un Giuseppe anziano, stanco per il viaggio, sono confortati dal suono del violino suonato da un angelo efebico e riccioluto. La sacra famiglia è in fuga dal tiranno Erode, come oggi si è in fuga da Assad, dallo Stato islamico, da Al Shabaab e dalle mille guerre che tormentano il nostro avvenire.
Ma, nonostante le tante difficoltà, la musica fa la differenza e ci ricorda che c’è ancora bellezza nel mondo.
L’Europa non deve far altro che seguire l’angelo e ricordare il suo passato travagliato per costruire un futuro di vera accoglienza.