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Tranquille ragazze, anche Wonder Woman ha la cellulite

Getty Images

Credo di essere una donna intelligente.

Ma allora perché penso ventiquattr’ore su ventiquattro alla mia cellulite?

Sono nata da genitori somali a Roma. Mi definisco spesso afroitaliana, a volte afroeuropea, per semplificare somala/italiana o italosomala. Amo le mie due identità, l’odore del cardamomo e la pastasciutta trovano una sintesi perfetta nelle mie narici, ma ecco, devo dirla questa mia verità: ogni tanto penso che della chiappa africana avrei fatto a meno. E ogni volta che questo pensiero mi attraversa la mente, mi sento in colpa. La chiappa africana è grande, a pera, deborda dove tu non vorresti, fa sì che comprarti un paio di pantaloni sia un inferno. Insomma, si fa notare un po’ troppo, da te e dagli altri. E, insieme alle cosce, sprizza cellulite e smagliature da tutte le parti. Ma possibile che una donna intelligente pensi davvero a questo ammasso di sciocchezze?

Come mai do la colpa alla mia chiappa e non al pantalone?

Perché nonostante la laurea e il dottorato di ricerca cado nella trappola di sentirmi sbagliata?

E poi, che male mi ha fatto la cellulite? Perché a volte la considero un flagello peggiore della peste bubbonica che faceva strage nel 1300?

Ogni donna, non importa di quale parte del pianeta, perde tempo prezioso dietro argomenti del genere. Succede a tutte, almeno una volta nella vita. Cominciamo a ragionare e a parlare come una rivista patinata. E tutte, prima o poi (confessiamolo), compriamo creme che promettono di ridurre la cellulite e far sparire in un battibaleno ogni rotolino di grasso in più. Sappiamo che le creme non funzionano, ma le compriamo lo stesso. Perché tentar non nuoce, e perché siamo sull’orlo di una crisi di nervi. E poi la televisione non aiuta, soprattutto il telegiornale che ci ossessiona (sempre a primavera, mai che ci lasci godere questa stagione in pace) con mille servizi sulla prova costume.

Non siamo sole. Anche Wonder Woman si è arresa

Insomma, ogni volta, ogni santo anno, stiamo lì a impastare le nostre cosce come il pane per vedere quanta quantità di adipe si è accumulata sopra. E non importa se si è atee, ebree, musulmane o cristiane. La cellulite supera ogni confine, ogni scontro di civiltà. Ci ha fregato tutte. Ed eccoci ridotte a compratrici compulsive di creme snellenti. È il mercato, baby, che ci rema contro, che vuole solo i nostri soldi. Ma il mercato ha vinto, ci ha fregato, ammettiamolo. Nel momento in cui ci ha detto che la cellulite è una malattia e noi ci abbiamo creduto, ecco, da quel momento non siamo più state libere.

Non siamo sole. Anche Wonder Woman, quella con la cintura magica, che vola come un missile terra-aria, che salva le persone, che ha insomma i superpoteri, anche lei si è arresa davanti alla cellulite.

La notizia è uscita sulla storica testata Sensation Comics, recentemente rilanciata in formato digital first, dove le strisce sono pubblicate prima in digitale e poi in versione cartacea. Alex De Campi, uno degli autori, ha cercato di infondere nuova umanità nella supereroina e, non a caso, ha cominciato proprio dalla cellulite. La reazione dei lettori non si è fatta attendere: il 23 gennaio 2015 Tumblr è stato preso d’assalto e, nel giro di poche ore, più di centomila utenti hanno commentato o rilanciato la striscia in questione. Via via i contatti sono aumentati e la cellulite di Wonder Woman è diventata un trending topic su Twitter. Nell’episodio un’amica della supereroina la vede con un nuovo costume. “Mi piaceva di più quello tradizionale”, commenta.

Wonder Woman su Sensation comics.

Quello tradizionale è quello dove le gambe di Wonder Woman sono in bella vista. Invece nella striscia la supereroina si è bardata con una sorta di corazza medievale, che la copre tutta con una ferraglia degna di Lancillotto. L’amica è perplessa e Wonder Woman le svela l’arcano: qualcuno ha messo su Instagram la sua foto mentre, a gambe nude, salvava migliaia di persone dopo un terremoto devastante in Messico. L’immagine è diventata subito virale perché, appunto, mostrava la sua cellulite. Con ironia, la supereroina commenta che se avesse ricevuto un dollaro da ogni persona che ha visto quella foto, avrebbe potuto ricostruire seduta stante le case distrutte dal sisma. E, affranta, ammette che le persone si sono interessate di più a quel dettaglio che agli sforzi compiuti per salvare la gente.

Diciamolo, a Superman (che in quanto a costume ridicolo non scherza, indossa una calzamaglia) queste cose non succedono. Perché a Wonder Woman sì?

Mondo canaglia!

Tra gli anni venti e trenta l’obesità viene dichiarata nemico pubblico in Francia. E la moda si adegua

Ma quando è cominciata questa storia della cellulite? È sempre stata il delirio che è oggi?

Guardando i quadri rinascimentali o barocchi non sembrerebbe, anzi. Le donne non solo sono in carne, ma spesso sono fornite di una buona dose di cellulite. Da Tiziano a Rubens, le nostre antenate ci davano dentro. Ma non venivano considerate meno belle, meno donne o, come succede oggi, malate.

E allora, quando è cominciata questa prigione mentale in cui siamo tutte rinchiuse?

La cellulite ha una data e un luogo di nascita: è nata a Parigi intorno al 1920. A dirlo è la storica Rossella Ghigi nel saggio Le corps féminin entre science et culpabilisation (Il corpo femminile tra scienza e colpevolizzazione). Il termine era già apparso nel 1873 nella dodicesima edizione del Dictionnaire de médecine diretto da Littré e Robin, ci informa Ghigi. La cellulite è indicata come una infiammazione dei tessuti cellulari. Ma è solo dopo che si crea una vera cellulitemania. Tra gli anni venti e trenta del novecento l’obesità viene dichiarata nemico pubblico in Francia. C’è un vero stigma per il grasso. E la moda si adegua al nuovo modello di donna longilinea, che si sviluppa tutta in verticale. Un’eterna adolescente che deve far sparire ogni curva attraverso le linee dritte di gonne e vestiti. È in quest’epoca che appaiono i primi reggiseni, che servono a comprimere il seno più che a valorizzarlo. La donna moderna, la vera parigina, deve essere magra, dice la moda.

Il processo trova il suo coronamento, continua Ghigi, in un numero della rivista femminile Votre Beauté, anno 1933, dove la cellulite fa il suo debutto nelle riviste patinate come “problema femminile”. L’articolo, che porta la firma di tale dottor Debec, crea di fatto l’incubo che tutte conosciamo. Votre Beauté era la rivista di Eugène Schueller, fondatore nel 1909 dell’Oréal, destinata a diventare azienda leader della cosmetica.

E saranno proprio le aziende cosmetiche a fare tesoro dell’articolo del dottor Debec. A Parigi cominciano a nascere come funghi centri estetici pronti a debellare quel male incurabile, quel mix di tossine e residui che diventa il peggior nemico delle donne. Accanto a loro, si moltiplicano anche rimedi, pillole, prodotti. Il mercato fiuta l’affare e comincia una campagna anticellulite diffusa e capillare. L’articolo di Debec aveva suscitato un certo panico tra le lettrici, in molte avevano scritto alla rivista. Alcune chiedevano al dottore: “Sono malata?”. L’ansia della cellulite si era insinuata subdolamente nelle nostre vite. Da quel momento viene alimentata ad arte. Dopo poco anche Marie Claire pubblica, il 7 maggio 1937, un articolo dove quel residuo adiposo viene trattato come una patologia insostenibile, da combattere a tutti i costi. E i costi dei primi rimedi sul mercato sono davvero elevati. Le donne, però, stoicamente si sottopongono a tutto. A nessuna piace essere bollata come “malata”.

Poi per un attimo, durante la seconda guerra mondiale, la vertiginosa ascesa della cellulite si attenua (senza però fermarsi del tutto). C’erano argomenti ben più importanti da trattare.

Ma mentre cadevano città e si assisteva a bombardamenti spaventosi, la cellulite se ne stava acquattata in attesa di tempi migliori. E questi arrivarono.

In America, per fare la sua marcia trionfale, la cellulite scelse un anno decisamente non banale, il 1968

Dopo la guerra, la mania dalla Francia si diffuse un po’ in tutto il mondo. In America, per fare la sua marcia trionfale, la cellulite scelse un anno decisamente non banale. Quel 1968 delle lotte giovanili e della protesta contro la guerra in Vietnam. Il sessantotto nel nostro immaginario è fatto di manifestazioni, abiti hippie, controcultura, ascesa del femminismo. Un anno antisistema, pacifico e libero. Ma forse non è un caso che proprio nel 1968, esattamente il 15 aprile, la versione americana di Vogue si presentò alle lettrici con un articolo dal titolo Cellulite, the new word for fat you couldn’t lose before (Cellulite, la nuova parola per il grasso che prima non potevi perdere). Anche dopo questo articolo, le lettrici preoccupate scrissero al giornale. Pian piano la ragnatela della cellulite si andava estendendo a tutto il mondo, ma ci vorranno altri vent’anni perché il termine diventi di uso corrente.

Rossella Ghigi nel suo saggio – uno dei pochi dedicati alla storia della cellulite e alle sue ricadute sul corpo sociale della donna – mostra come il termine entra nei nostri vocabolari solo di recente. Se negli anni ottanta del secolo scorso la cellulite era ancora descritta con il suo significato originale di infiammazione, che nulla aveva a che fare con la cosmetica, negli anni novanta a questa descrizione si affianca quella di cellulite come deposito di grasso. La Treccani, alla voce cellulite, dice: “Nel linguaggio comune, presenza di adipe non uniformemente distribuito nelle parti esterne del corpo, soprattutto nelle donne”.

Ed è così che la cellulite, affare del tutto moderno, diventa una gabbia per le donne.

Ora il mercato delle creme anticellulite fattura uno sproposito in tutti i paesi, soprattutto in occidente. Per non parlare poi dei trattamenti chirurgici, a volte anche pericolosi. Ma serve tutto questo? Leggendo Rossella Ghigi ho pensato che la cellulite moderna è un po’ come il corsetto che le donne europee dovevano usare nel 1800. Sono andata a curiosare per capire com’era questa faccenda del corsetto. E mi sono imbattuta in questa riflessione di Thorstein Veblen, sociologo ed economista statunitense, che nel suo libro La teoria della classe agiata scrisse: “Il busto è uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto e di rendere la donna evidentemente inadatta al lavoro. Certo esso menoma le attrattive personali di chi lo porta, ma la perdita subita in questo senso è compensata dall’evidente accrescimento del suo valore di mercato”. I busti erano veri strumenti di tortura. Servivano a dare alle donne un vitino di vespa e quella forma a S che spingeva il seno in avanti e inarcava le reni all’indietro. Il busto non permetteva dei movimenti fluidi e relegava la donna al ruolo marginale di semplice decorazione. La donna poteva solo occuparsi di bellezza, della sua bellezza, e lasciare le cose serie agli uomini.

Ai tempi del busto le donne non votavano e quelle che si lanciarono nella lotta per una vera parità con gli uomini, non solo dovettero abbattere il muro costruito intorno al loro corpo dal privilegio maschile, ma prima ancora dovettero affrontare il loro stesso corpo, spezzando quella gabbia dove il seno, gli organi interni e il bacino erano compressi. Per esempio, per mettere un paio di pantaloni le scultrici (che erano davvero impossibilitate a lavorare con quegli abiti lunghi e scomodi) a Parigi nel 1866 dovevano avere un regolare permesso dal prefetto. Anche se stavano chiuse nel loro atelier.

C’è chi rema contro

I discorsi sulla cellulite sono una moderna gabbia per le donne. La cellulite fa parte della vita, ma i discorsi che facciamo su di essa relegano le donne, al pari del corsetto, nel solito angolo. La donna è solo corpo e non deve occuparsi di altro. La cellulite è un distrattore sociale, ci inferiorizza e ci distoglie da preoccupazioni più serie. Ed è anche un grande, grandissimo, business. Sulla cellulite le multinazionali fanno affari d’oro. Allora, se sappiamo tutto questo, cosa ci impedisce di ribellarci? Non è facile uscire dal coro. Non è facile quando intorno a te ci sono cosce perfette, taglie 40, pelle liscia come le piste automobilistiche di Indianapolis. Anche le modelle curvy, quelle che del loro essere in carne hanno fatto un mestiere, non fanno vedere la cellulite. Anche le curvy hanno la cellulite fotoshoppata.

Per fortuna c’è chi invece rema contro. Recentemente, grazie alla mia amica archeologa Enza Spinapolice, ho scoperto il poeta, rapper, artista e fototerapista Saddi Senghor Ibin Abo Khali. È un uomo dai mille talenti. Nato nel Queens, a New York, e cresciuto a New Orleans, ha infuso nel suo lavoro poesia e realismo. Soprattutto nelle sue fotografie la sua poetica riesce a esprimersi al meglio. I suoi corpi nudi sono veri, sensuali e affascinanti. Fotografa donne afroamericane con tutti i loro difetti. Fotografa smagliature, rotoli di grasso, cellulite. Non nasconde nulla. Tuttavia le sue immagini risultano spesso non solo erotiche – di certo più erotiche di quelle che troviamo nelle riviste patinate, dove la cellulite è vietata – ma anche intime e quotidiane. Il messaggio è che non esiste un corpo regolare. Che non possiamo aderire a un unico modello. Che, insomma, non possiamo rovinarci la vita inseguendo un ideale o una taglia che non raggiungeremo mai. Ed ecco che nelle sue foto ci sono baci, abbracci, figli e cellulite. La quotidianità è fatta di questo, di corpi uno diverso dall’altro. Corpi che si amano e che non sono ossessionati dalle proprie imperfezioni. Anzi, che fanno di quelle imperfezioni l’oggetto dell’amore stesso.

È un discorso che piano piano sta capendo anche la moda. L’estate scorsa il brand Swimsuits for all ha scelto per la sua campagna pubblicitaria lo slogan “Beach body. Not sorry” (Corpo da spiaggia. Non sono dispiaciuta). La testimonial della campagna era Denise Bidot, una bellissima modella curvy immortalata in tutta la sua giunonica bellezza, compreso il famigerato lato B. E senza l’ausilio di photoshop, con la cellulite in bella mostra. Gli hashtag della campagna – #‎BeachBodyNotSorry, #‎NotSorry, #‎Unretouched – parlano chiaro. E Bidot stessa sul suo sito proclama: “Non c’è un modo sbagliato di essere donna”. Tutto quello che detestava da adolescente, tutti i suoi cosiddetti difetti, erano alla fine solo se stessa.

E se cominciassimo a pensare tutte così?

Curare il corpo, fare attività fisica, mangiare sano sono cose che dobbiamo continuare a fare.

Ma non ci dobbiamo più disperare se abbiamo la cellulite e qualche smagliatura.

Nonostante le pubblicità dicano il contrario, ricordiamoci sempre che la cellulite non è una malattia. E, per favore, qualcuno lo dica pure a Wonder Woman. Si può salvare il mondo anche con la cellulite, ragazze.

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