“Di italiano ho: un figlio, un passaporto, un codice fiscale”. Così scriveva tempo fa Helena Janeczek, vincitrice della 72ª edizione del premio Strega, assegnato a Roma il 5 luglio. Il suo romanzo, La ragazza con la Leica (Guanda), è stato un successo di pubblico e critica fin dall’uscita, nell’autunno 2017. La protagonista del romanzo è la fotografa Gerda Taro, che ci fa l’occhiolino dalla copertina. Una meteora nella vita di chi l’ha amata, compagna e “inventrice” di Robert Capa. Janeczek è riuscita a mescolare una storia fatta di anarchici e sognatori con la sapienza di chi sa che a volte la vita sa essere brutta, sporca e cattiva. Attraverso Taro riannoda i fili di un secolo breve che ci ha lasciato tante questioni aperte.
Il giudizio sul romanzo è stato unanime. Ha vinto il libro giusto. Quello che ha saputo interpretare le angosce contemporanee, raccontandoci una storia esemplare del passato, dove la lotta antifascista non è stata solo la lotta di un singolo, ma di una collettività internazionale, che in Spagna si è ritrovata e si è guardata negli occhi con orgoglio e anche con sgomento.
Con questo libro, l’autrice ha anche rotto il famoso tetto di cristallo: era infatti da 15 anni che una donna non vinceva il premio Strega. Ma c’è dell’altro nella vittoria di Janeczek, ed è legato al suo cognome, che non è quello vero della sua famiglia. Quello si è perso nel caos che si è verificato alla fine della seconda guerra mondiale. Le guerre, le migrazioni, le catastrofi che l’essere umano si infligge costringono le persone a lasciare le loro case, a cambiare identità, a mutare orizzonti, a buttar via i sogni e spesso anche i cognomi. Ed ecco che il destino che ci fa nascere con un nome (e un paese) decide di disfare tutto e ci si ritrova all’improvviso con qualcosa che non è mai stato nostro, un cognome del tutto sconosciuto.
Un passato doloroso
È successo a molti emigranti italiani, ebrei, irlandesi, ungheresi a Ellis Island, negli Stati Uniti. E succede ancora ai siriani, ai somali, agli eritrei, ai bangladesi negli uffici dell’anagrafe italiani, da Verona a Brindisi, passando per Roma e Milano.
I genitori di Helena Janeczek provenivano direttamente dall’indicibile, dal campo di concentramento per eccellenza, da Auschwitz. Con un cognome falso, la famiglia ebrea-polacca dell’autrice è andata avanti, ricreando una vita, un futuro, delle nuove abitudini. Janeczek è cresciuta all’ombra di tutto questo in una Monaco di Baviera dove le tracce del nazismo erano e sono ancora evidenti. È lì che si trovano la casa di Hitler – che oggi ospita un conservatorio –, la piazza delle adunate e delle braccia tese. Ma la sua vita nella città tedesca è stata anche quella di una ragazza normalissima, che andava a scuola e sognava l’amore e i fiori come tutte.
Tuttavia, a casa la musica era un’altra. È lì che Janaczek ha fatto la sua prima esperienza con il vuoto. Chi sopravvive all’indicibile, come i suoi genitori, spesso non ama ricordare la catastrofe che ha lacerato il proprio corpo e la propria anima. Si tende, ed è umano, ad andare avanti. A non rivangare un passato troppo doloroso. Ed ecco che chi vive accanto a chi sopravvive deve abituarsi al vuoto, al silenzio, al non detto che ricopre fatalmente le pareti del cuore. Il vuoto riempie tutto. Ed è quel vuoto uno dei motivi (di certo non il solo) che ha spinto Janeczek a scrivere.
In famiglia (e lei lo racconta benissimo nei suoi libri, soprattutto nell’intenso memoir Lezioni di tenebra), la tendenza era quella di prendere le distanze da tutto. Si prendevano le distanze dall’yiddish per abbracciare il tedesco, si prendevano le distanze dalla propria memoria, dai dolori, dalle tradizioni e dall’ebraismo. Ed è questo allontanamento volontario che ha portato l’autrice a riflettere sulle contraddizioni personali e collettive che hanno caratterizzato il novecento, un secolo che non ha voluto raccontarsi la verità fino in fondo.
È stata la scrittura a farle trovare un ancoraggio nel mare dei non-detti. Una scrittura che all’inizio ha avuto il suono caustico e preciso della lingua tedesca, un po’ madre e un po’ matrigna. È nel tedesco di Johann Wolfgang Goethe e di Elias Canetti che l’autrice esordisce. E all’inizio è stata la poesia a soggiogarla. La prosa arriverà dopo e avrà il suo compimento in un’altra lingua. Helena Janeczek diventa scrittrice quando abbraccia e fa suo l’italiano musicale e rumoroso al tempo stesso.
La scelta dell’italiano
Nel 1983 si trasferisce nell’Italia del nord. Ed è qui che la lingua di Dante, Boccaccio, Calvino, Morante, la illumina e le dà la possibilità di trovare un terreno neutro dove è più facile svelarsi. Non è la sua lingua madre, ma è in italiano che Janeczek vuole comunicare prima di tutto con gli italiani che ha intorno e poi alla sua anima migrante che non solo si è spostata da un paese all’altro, ma ha migrato anche da una lingua all’altra.
Ed è questa migrazione linguistica che fa della sua vittoria allo Strega una vittoria storica non solo per lei, ma per il paese. È la prima volta che la letteratura italiana è così dichiaratamente multiculturale. Lo è sempre stata, ma non si è mai raccontata in questo modo. Pensiamo solo al padre dell’italiano, Alessandro Manzoni. Anche lui in fondo ha scritto il suo capolavoro, I promessi sposi, in una lingua non sua. È in un’Italia non ancora unita, che l’autore decide di risciacquare i panni in Arno. Ma nessuno a scuola ci ha mai detto che l’italiano che sceglie è una lingua che maneggia con una certa fatica. Per lui è una lingua straniera. Ha più familiarità con il francese, è quella la sua lingua del cuore. Ma la sua è una scelta politica, scrivere in italiano gli permette di dare una lingua scritta a se stesso e all’Italia che verrà.
Naturalmente, non c’è stato solo lui. Basta pensare alle influenze mitteleuropee di Svevo, al dialettismo esasperato di Gadda o alla lingua di frontiera di Boris Pahor. E sfogliando le pagine di un qualsiasi manuale di letteratura scopriamo quanto il multiculturalismo sia una cifra della letteratura italiana.
Altre lingue, altri mondi
La vittoria di Janeczek lo svela ancora una volta e mette al centro quello che il mainstream per tanto tempo non ha voluto vedere, ignorando le tante autrici e i tanti autori che scrivono partendo da altre lingue e da altri mondi.
Scrittrici e scrittori come Amara Lakhous, Cristina Ali Farah, Gabriella Kuruvilla, Gezim Hajdari, Laila Wadia, Gabriella Ghermandi, Tahar Lamri, Karim Metref. Tutti loro si sono fatti carico delle contraddizioni delle loro mille migrazioni e lingue. Sono passati dall’arabo al torinese, dall’indiano al triestino. C’è tra loro chi è nato in Italia e le sue origini le ritrova nel lessico familiare e chi invece come Janeczek ha fatto una scelta rigorosa e coraggiosa, quella di scrivere in una lingua piccola e grandissima insieme. Una lingua grande perché dotata di una superba tradizione letteraria, ma piccola perché ha un mercato letterario ristretto. Non è una scelta ovvia, quella di scrivere in italiano. Si sceglie un orizzonte, una musicalità, un percorso di vita. Di certo non si sceglie il mercato dei libri che contano, che ormai parla solo l’inglese di Manhattan o di Soho. È una scelta letteraria e politica.
La vittoria di La ragazza con la Leica sfida un’Italia che ha sempre più paura di chi è considerato erroneamente diverso o estraneo. E svela un paese che nonostante i proclami razzisti e di chiusura è cambiato e cambierà sempre di più. Perché ci sono, e non da oggi, scrittori e scrittrici come Janeczek che già mescolano mondi e aprono frontiere, perché sono essi stessi frontiere aperte, da attraversare mille e mille volte, in lungo e in largo. In un certo senso la vittoria dell’autrice è anche la vittoria di un mondo che non ha paura del futuro. Di un mondo che sa meticciarsi perché in fondo è quello il destino delle persone. La vittoria del suo libro è qualcosa che svecchia la letteratura italiana e la decolonializza. E forse, spingerà molte case editrici a cercare altri autori meticci, giovani e giovanissimi.
Siamo tutti figlie e figli di migrazioni, nessuno escluso
Joseph Conrad, Vladimir Nabokov, Iosif Brodskij, Kahlil Gibran, Nancy Huston, Ha Jin, Ágota Kristóf, Nadeem Aslam, Najat El Hachmi, Aga Lesiewicz, Téa Obreht: sono tante le autrici e gli autori che hanno scelto una nuova lingua, un nuovo orizzonte. Si scrive con il dizionario aperto a fianco, come racconta la Kristóf in L’analfabeta. La scrittura diventa così un processo di doppia creazione, qualcosa che fa spuntare una lingua nell’alveo di un’altra, come spiega bene la poeta indiana Sujatha Bhatt.
Helena Janeczek, che ha preso la cittadinanza italiana da poco tempo, è una scrittrice ius soli, scrive per diritto di suolo. Anzi, ancora meglio, Janeczek è una scrittrice – passatemi il gioco – ius linguae. Ed è strabiliante che abbia vinto in tempi in cui l’oscurantismo domina in politica.
L’Italia è una terra di meticci. Qui ci sono passati tutti: arabi, normanni, francesi, austriaci. Basta vedere le facce delle persone lungo la penisola per capire quanta diversità alberghi nel paese, quanto la diversità sia normalità. Eppure lo stato ha sempre fatto fatica ad accettarla. Fin dall’unità, è stata costruita una bianchezza esasperata, quasi timorosa. Non è un caso che nel manifesto della razza, i fascisti non sapessero come giustificare gli etruschi nel proprio albero genealogico. Gli etruschi così meticci, così orientali erano un problema per il fascismo. Come giustificarli nella costruzione di una storia basata su una purezza mai esistita?
Siamo tutti figlie e figli di migrazioni, nessuno escluso. Si abitano più lingue, più mondi. Si abitano più anime. La vittoria di Helena Janeczek ce lo conferma. Al ninfeo di villa Giulia ha vinto il meticciato a lungo negato. Quello di un’autrice meticcia, mobile e prensile come una liana. Una scrittrice che ci ha insegnato e ci insegna a non aver paura, perché “vivir con miedo es cómo vivir a medias”, vivere con la paura è come vivere a metà, come dice un proverbio spagnolo.
Farei un torto all’autrice dicendo che il suo libro è un antidoto alla retorica di Salvini. Probabilmente lo è. Ma non è questo il punto. La sua vittoria è qualcosa di immensamente più grande. L’autrice sa rovesciare con una frase l’enfasi della tristezza che impera in questa Italia del cambiamento, che non solo non cambia niente, ma condanna il paese a un immobilismo fatto di odio, razzismo e diffidenza. La vittoria di Janeczek ci dice che l’Italia può cambiare, se solo lo desidera. Dalla letteratura è arrivato un segnale. Ora sta a tutti noi seguirlo.
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