Questa settimana Mitt Romney è entrato nella storia. È il primo mormone candidato alle presidenziali degli Stati Uniti: anche se non ha lo stesso impatto immediato e viscerale dell’elezione di Barack Obama – il primo presidente nero – la sua candidatura testimonia il lungo viaggio compiuto dai mormoni dalla nascita della loro religione nell’America del primo ottocento. Il 29 maggio, dopo una vittoria indiscussa alle primarie del Texas, Romney è diventato il candidato ufficiale repubblicano conquistandosi un posto nella storia del suo popolo. La presidenza è sempre stata il sogno dei leader mormoni. Nel 1839 il fondatore Joseph Smith partì dalla colonia dei suoi fedeli in Illinois alla volta di Washington, dove incontrò il presidente Martin Van Buren e cercò inutilmente il sostegno del governo contro le persecuzioni. Nel 1844 si candidò alla presidenza. Pochi mesi dopo fu ucciso in prigione a Carthage, in Illinois.

All’inizio pochi credettero alla storia di Joseph Smith, il profeta che a New York aveva scoperto e tradotto un libro sacro scritto su tavole d’oro che restaurava la vera chiesa di Cristo dopo millenni di apostasia. Oggi ci sono più di dodici milioni di mormoni in tutto il mondo.

I mormoni hanno ormai rinunciato alla poligamia, che in passato provocò la violenta repressione di Washington e costrinse molti, tra cui gli antenati di Romney, a fuggire in Messico. E hanno fatto pace con il governo federale. Oggi uno di loro è più vicino che mai a guidare quel governo e il paese a cui la loro religione è legata a doppio filo.

*Traduzione di Fabrizio Saulini.

Internazionale, numero 951, 1 giugno 2012*

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