Il 9 ottobre 1967, quando i militari boliviani e gli agenti della Cia decisero di uccidere Ernesto “Che” Guevara de la Serna nel villaggio di La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz, erano convinti che la sua morte sarebbe stata la prova del fallimento dell’impresa comunista in America Latina. Non andò così. Contrariamente alle loro aspettative, la scomparsa di Guevara diventò il mito fondativo per le generazioni successive di rivoluzionari, che s’ispirarono al guerrigliero e cercarono d’imitarlo.

“Come possono andare dietro a un fallito?”, è la domanda che si fanno sempre gli oppositori di Guevara, di Fidel Castro, della rivoluzione cubana e di tutti quelli che hanno cercato di promuovere una rivoluzione socialista in America Latina negli ultimi cinquant’anni. Escono dai gangheri quando vedono giovani di altri paesi, anche del più potente e capitalista del mondo, gli Stati Uniti, indossare magliette con il volto del Che e, peggio ancora, manifestare la loro simpatia per il “guerrigliero eroico”, com’è ricordato ufficialmente a Cuba.

Non capiscono e non hanno mai capito che Guevara diventò un eroe per il modo in cui visse e, soprattutto, in cui morì. Poche altre figure pubbliche contemporanee hanno uguagliato il suo lascito, soprattutto in ambito socialista. Non ci sono magliette con il volto del leader sovietico Leonid Brežnev, dell’albanese Enver Hoxha o del cambogiano Pol Pot.

La faccia del Che è di per sé un marchio e il simbolo globale della ribellione pura

La creazione del mito di Guevara non è il semplice risultato di una campagna pubblicitaria alla Mad men. Se fosse così, anche “gli altri” avrebbero consolidato alcuni dei loro eroi nell’immaginario popolare, perché in fin dei conti furono loro a vincere la grande battaglia della guerra fredda. Ma dove sono le magliette con la faccia degli argentini Jorge Videla e Alfredo Astiz, o del dittatore cileno Augusto Pinochet?

Per una serie di ragioni, tra cui l’essere coerente con i propri ideali e pronto a morire per quelle idee, buone o cattive che fossero, Guevara andò oltre la cerchia dei suoi seguaci e diventò il guerrigliero per antonomasia. Una metamorfosi che trasformò il suo innegabile fallimento in Bolivia in una fonte d’ispirazione.

Il fatto che Guevara fosse giovane e bello quando morì ha alimentato la sua leggenda. E il fatto che il suo corpo senza vita ricordasse quello di Gesù facilitò la costruzione del mito postumo. Le idee di Guevara, espresse nel saggio Il socialismo e l’uomo a Cuba, probabilmente oggi sono molto meno note ai suoi giovani seguaci rispetto al celebre ritratto di Alberto Korda.

La faccia del “Che” è di per sé un marchio e il simbolo globale di una sfida allo status quo, della ribellione pura, soprattutto giovanile, contro le ingiustizie. È il volto dell’indignazione contro un mondo pieno di disuguaglianze in cui – dicono il volto e l’eredità del guerrigliero – bisogna prendere posizione e, se serve, combattere fino alle estreme conseguenze. Ci sono pochi altri volti in grado di esprimere un messaggio simile.

In parte è per questo che il mito di Guevara è ancora vivo. Si consolidò nell’epoca in cui la tv sostituiva la radio come mezzo di comunicazione di massa, e nascevano la cultura pop e quella del consumismo, in cui “sei quello che indossi” e non necessariamente quello che fai.

Un paradosso
Eccoci qui, cinquant’anni dopo, in un mondo in cui il brand è tutto: nel Regno Unito se porti vestiti Burberry sei quasi sicuramente un conservatore; negli Stati Uniti se guidi un’auto Subaru sei un elettore del Partito democratico, forse vegano o quantomeno attratto dal cibo biologico. La maglietta di Guevara dice che hai un atteggiamento di sfida nei confronti del mondo, che non comporta un impegno concreto ma presuppone una presa di posizione. C’è di più. In quest’epoca in cui tutti hanno uno smartphone e passano ore sui social network, Guevara rappresenta un paradosso: è il legame con un mondo reale passato, la dimostrazione concreta che due generazioni fa migliaia di uomini e donne, soprattutto giovani, fecero cose reali per esprimere il loro dissenso. Quella generazione forse ha fallito, ma oggi il suo sacrificio ha qualcosa di romantico.

Negli ultimi anni alcuni rappresentanti della nuova generazione, chiamiamola generazione smartphone, si sono posti nuove domande su Guevara. Sono attratti dalla sua figura, ma sono preoccupati da tre cose: vogliono sapere se era omofobo, se era razzista e se è vero che fosse “un assassino”.

Vent’anni fa quasi nessuno mi faceva domande simili, a riprova del fatto che la politica identitaria si è impossessata del dibattito pubblico, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Il cambiamento di prospettiva nei confronti della figura di Guevara m’interessa e mi preoccupa, per l’innocenza espressa da queste nuove inquietudini.

Guevara, per quanto fichi fossero il suo basco e la sua barba, era un guerrigliero. Non era un marchio o un attore

Guevara non era razzista né, che io sappia, omofobo. E se lo fosse stato? Il suo atteggiamento verso la sessualità o l’etnia sono gli elementi più importanti per decidere se ammirarlo o disprezzarlo? Cosa dovremmo pensare di Malcolm X? Lo ammiriamo per il suo coraggio contro il razzismo bianco o lo condanniamo per le sue espressioni di odio verso il “diavolo bianco”? Cosa dovremmo dire dell’epoca che precedette il suo impegno, quando era un delinquente e obbligava le donne a prostituirsi?

La preoccupazione più grande espressa dai giovani è quella di “Guevara assassino”. È una domanda che mi è stata fatta molte volte e quindi ho dovuto spiegare che Guevara, per quanto fichi fossero il suo basco e la sua barba, era un guerrigliero. Non era un marchio o un attore che recitava la parte del combattente. Ho spiegato che in quel mondo reale i guerriglieri come lui combattevano davvero e avevano delle armi. Che uccisero, e a volte morirono, per le loro idee. Ho anche spiegato che, secondo me, c’è una differenza tra essere un “assassino” ed essere un guerrigliero. A prescindere da quello che penso io, è vero che Guevara processò e condannò a morte delle persone, sulla Sierra Maestra e all’Avana durante i processi sommari contro i sostenitori di Fulgencio Batista, dopo il trionfo della rivoluzione nel 1959.

Che io sappia, le persone condannate a morte e fucilate sulla Sierra erano assassini, stupratori o traditori. I nemici catturati e uccisi all’Avana facevano parte degli squadroni della morte dei servizi segreti di Batista o erano militari che avevano compiuto atti feroci. Che i giovani lo accettino o meno, la dissonanza cognitiva che alcuni di loro vivono nei confronti di un’icona della cultura pop mi sembra indicativa e dimostra che ogni generazione impone le sue definizioni alle figure storiche.

Cosa dobbiamo pensare di Guevara oggi, in un mondo in cui gli Stati Uniti sono mal governati da un miliardario razzista e incompetente come Donald Trump, l’Unione Sovietica non esiste più, ma c’è Vladimir Putin che è a capo di una Russia ultranazionalista, autoritaria ed estremamente corrotta? La Cina non è più il paese di Mao Zedong e ancora meno quella dei battaglioni di contadini e lavoratori, che Guevara ammirava molto. È un paese che vive un capitalismo sfrenato.

Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda, o almeno la battaglia economica. Ventisei anni dopo il crollo del comunismo, i paesi in cui ci furono guerriglie ispirate da Guevara oggi sono quasi tutti capitalistici. In America Latina le eccezioni sono il Venezuela e Cuba, che ancora ostentano il loro socialismo. In Nicaragua c’è il vecchio sandinista Daniel Ortega, che di rivoluzionario ha molto poco.

Invece di nascondersi sulle montagne dei loro paesi per inseguire un ideale rivoluzionario, oggi le nuove generazioni di poveri ed emarginati latinoamericani emigrano verso nord per fare il lavoro sporco al posto degli statunitensi. Altri entrano nelle gang criminali. La criminalità organizzata e il narcotraffico sono cresciuti fino a dominare interi territori dell’emisfero. Le battaglie si combattono per questioni di denaro e non più per seguire l’ideale di “un mondo migliore”.

In Bolivia, dove fu ucciso Guevara, al governo c’è Evo Morales, che è non solo il primo indigeno eletto presidente in cinquecento anni, in un paese a maggioranza indigena, ma anche un fervente ammiratore del guerrigliero argentino. E nell’anniversario dell’ultima battaglia di Guevara, che per i suoi sostenitori è l’8 ottobre (non il giorno della sua morte, il 9 ottobre), Morales ha dato il via alle celebrazioni per onorare il guerrigliero. Forse in questi cinquant’anni qualcosa è davvero cambiato grazie alla presenza di Ernesto “Che” Guevara in America Latina.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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