*A Seoul, in Corea del Sud, un uomo partecipa a un corso per prevenire il suicidio. (Truth Leem, Reuters/Contrasto) *
Guidando verso il ristorante dove ceneremo, un conoscente di Seoul, da poco rientrato dopo cinque anni in Italia, mi aggiorna sulle sue vicende: “Siamo ancora nel pieno del trasloco ma sono riuscito a prendermi qualche giorno per andare a trovare i miei, non li vedevo da un bel po’, in questi anni non sono mai tornato in Corea. E poi ho fatto un’esperienza interessante, la morte”. Prego? “Sì, ho provato la morte”. È uscito indenne da un incidente potenzialmente mortale? Ha partecipato a un esperimento scientifico per cui l’hanno portato quasi fino al punto di non ritorno? Davanti al mio sguardo incredulo, comincia a spiegare. “Sono stato in un posto dove ti fanno provare cosa significa morire. Mi hanno chiesto di riflettere sulla mia vita, sulle cose importanti che ho e su cosa significherebbe non averle più. Il tutto si svolgeva in un ambiente silenzioso, a lume di candela. Ero seduto accanto a una bara di legno con la mia foto sopra. Quando sono arrivato al culmine emotivo e ho cominciato a piangere, mi hanno chiesto di scrivere una lettera ai miei cari come se fosse l’ultima. Poi mi sono dovuto infilare nella bara, hanno chiuso il coperchio e sono rimasto lì per un quarto d’ora”. Chiedo quale sia il motivo che spinge a fare una cosa simile e chi la organizza. “Serve a farti apprezzare la vita, a capire il valore di quello che hai e dei tuoi affetti. Io, per esempio, i miei li sento raramente e li vedo ancora meno. Lo consigliano anche alle coppie in crisi, facendo quest’esperienza insieme s’impara ad ascoltarsi e si risolvono molti problemi. Mia moglie, però, non ha voluto saperne”.
Il mio conoscente mi spiega che a organizzare l’esperienza della morte, o meglio, a regalare il brivido di assistere al proprio funerale, sono le pompe funebri per farsi pubblicità, e negli ultimi anni l’iniziativa sta avendo un discreto successo, “l’altro giorno eravamo una cinquantina”. Provo a immaginarmi la scena: cinquanta persone in lacrime, ognuna con la propria candela accanto alla propria bara con la propria foto sopra. Con il peso emotivo che un’esperienza del genere, per chi la prende sul serio, comporta. In questo servizio della Cnn caricato su YouTube da un’organizzazione buddista che promuove questo tipo di seminari si può avere un’idea di come funziona:
A quanto pare da qualche anno diverse agenzie – non solo quelle funebri – con nomi come “Morte felice”, “Bella vita”, “Morire bene” hanno fiutato il business redditizio della morte simulata come terapia d’urto contro il male di vivere, le crisi esistenziali, l’apatia e i conflitti coniugali. In Corea del Sud, infatti, ogni giorno circa 43 persone decidono di farla finita. Tra i paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) la Corea del Sud è il primo nella classifica per il tasso di suicidi, che sono la prima causa di morte tra le persone sotto i 40 anni. Da quando sono arrivata a Seoul, non c’è stato nessuno tra le persone che ho incontrato che non abbia accennato all’epidemia di suicidi, uno dei problemi con cui il paese fatica a fare i conti perché le cause sono difficili da individuare. Gli esperti puntano il dito contro l’eccessiva competizione a tutti i livelli nella società, a scuola e sul lavoro in particolare. La crisi economica e la disoccupazione in aumento hanno peggiorato la situazione, tanto che negli ultimi dieci anni il tasso di suicidi è raddoppiato.
Il Mapo bridge è uno dei ponti sopra lo Han, il fiume che scorre attraverso Seoul dividendola in due orizzontalmente. È soprannominato “ponte della morte” perché è il preferito degli aspiranti suicidi della capitale, che sempre di più scelgono di morire buttandosi nel fiume. Recentemente l’amministrazione della città ha installato sul parapetto del ponte dei sensori che, al passaggio delle persone, fanno comparire dei messaggi rivolti a chi è lì per farla finita. Servirà?
In questo video si può vedere com’è oggi il Mapo bridge, ribattezzato “ponte della vita”:
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