Anche se in pochi, e poco convinti, nel fine settimana i giapponesi sono andati a votare assicurando a Shinzō Abe quello che voleva: due anni di mandato in più, il sostegno dei cittadini alla sua linea politica e il consolidamento della sua posizione all’interno del partito di maggioranza. Il Partito liberaldemocratico e l’alleato New Kōmeitō, il braccio politico del potente movimento buddista Sōka Gakkai, hanno mantenuto la maggioranza assoluta alla camera bassa, garantendosi ampia libertà d’azione in parlamento. Ma a cosa, esattamente, gli elettori – solo il 52 per cento degli aventi diritto, l’affluenza più bassa in settant’anni – hanno dato il loro consenso?
Alla vigilia del voto i sondaggi avevano registrato una confusione diffusa. A molti sfuggiva la ragione per cui sarebbero dovuti andare a votare due anni prima del previsto, con poco più di due settimane di preavviso e a fronte di una spesa non indifferente (400 milioni di euro) in tempi non proprio floridi dal punto di vista economico.
La risposta, dal punto di vista di Abe, era semplice: prima di proseguire nel percorso di riforme economiche avviate un anno e mezzo fa, il premier voleva il benestare dei cittadini. Ma con il paese tecnicamente di nuovo in recessione per gli effetti dell’aumento dell’iva dal 5 all’8 per cento, nessuna alternativa all’orizzonte e l’opposizione guidata da un Patito democratico inesistente, Abe sapeva bene di avere gioco facile. E la mossa gli è riuscita alla perfezione.
A urne chiuse i giapponesi scoprono che non si trattava solo di economia, di scegliere se continuare a fidarsi del piano in tre fasi dell’Abenomics – “unica via”, come ha ripetuto il premier in campagna elettorale, nel senso che non ci sono altre proposte sul tavolo – o andare alla deriva affidandosi a un’opposizione inconsistente e apparentemente senza idee.
Il pacchetto comprende anche altro, questioni spinose che stanno a cuore a Abe, come la revisione della costituzione pacifista e la riattivazione delle centrali nucleari, accantonate di proposito nei giorni antecedenti al voto ma a cui il premier pretende ora di estendere il consenso degli elettori.
“Cercheremo di far capire all’opinione pubblica la necessità di emendare la carta”, ha detto ieri il premier in tv, allargando il discorso dalle riforme economiche a quelle costituzionali. Per togliere i limiti imposti dalla costituzione all’attività dell’esercito – un’eredità dell’occupazione americana di cui una potenza mondiale come il Giappone si deve sbarazzare, secondo un’opinione diffusa anche tra le file del Partito democratico – oltre all’appoggio dei due terzi dei deputati di entrambe le camere Abe ha bisogno del consenso popolare tramite un referendum.
I giapponesi sono legati all’articolo 9 (quello della rinuncia alla guerra e a un esercito, anche se le forze di autodifesa sono un esercito a tutti gli effetti) come a un feticcio e difficilmente si faranno convincere ad abbandonarlo, nonostante la minaccia di Pechino nel mar Cinese orientale enfatizzata dalla retorica nazionalista del governo Abe.
Meno accidentato il percorso verso la riattivazione dei reattori spenti dopo il disastro di Fukushima. I primi due rientreranno in funzione a febbraio a Kagoshima, nel sud del paese, e ne seguiranno altri una volta terminati i controlli sulla sicurezza.
Intanto, mentre l’attenzione era concentrata sulle elezioni, il 10 dicembre è entrata in vigore la legge sul segreto di stato, proposta dal governo e approvata dal parlamento nel 2013. D’ora in poi, per motivi di sicurezza, il governo potrà bollare qualsiasi informazione come segreto di stato per un periodo che va dai cinque ai trent’anni; chiunque lo violi passando le informazioni secretate rischia fino a dieci anni di carcere, e chi cerca di ottenerle fino a cinque anni. Una legge che ha fatto retrocedere il Giappone di sei posizioni nella classifica sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere.
È in questa direzione che continuerà il nuovo governo, che dovrebbe insediarsi intorno a Natale per riprendere il filo dopo la breve pausa elettorale.
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