Negli Stati Uniti la vita sta tornando alla normalità. La normalità include inevitabilmente un agente di polizia che uccide un uomo nero disarmato e le proteste di piazza. Il paese, insomma, sta riprendendo il suo ritmo abituale.
Questa volta è successo a Minneapolis. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare dopo l’omicidio di George Floyd, commesso il 25 maggio da un agente di polizia che gli ha schiacciato il collo con un ginocchio per otto minuti, mentre lui era ammanettato e immobilizzato a terra. In agonia, Floyd ha continuato a ripetere che non riusciva e respirare e ha invocato la madre scomparsa, ma è stato ignorato. Gli altri tre poliziotti presenti sono sembrati del tutto indifferenti alla vita a cui stavano mettendo fine sotto lo sguardo disgustato dei passanti.
Le autorità del Minnesota hanno condannato la brutalità degli agenti. Il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, ha ribadito che “negli Stati Uniti essere un nero non dovrebbe rappresentare una sentenza di morte”, mentre altri, tra cui la senatrice democratica Amy Klobuchar, che continua a coltivare la speranza di arrivare alla Casa Bianca al fianco del probabile candidato del suo partito, Joe Biden, hanno espresso l’ampia gamma di reazioni che ci si aspetta in questi casi: stupore, orrore, richieste di indagini approfondite e inviti alla calma. In un raro atto di giustizia i quattro agenti sono stati immediatamente licenziati. Eppure solo il fatto che Floyd sia stato arrestato (e poi addirittura ucciso) perché colpevole dell’insignificante “crimine” di aver usato banconote false, durante una pandemia che ha già ucciso un afroamericano ogni duemila, ci ricorda in modo raccapricciante lo scarso valore attribuito alla vita dei neri negli Stati Uniti.
È facile comprendere la risposta della folla multietnica che ha invaso le strade di Minneapolis (osservando le immagini si vedono centinaia di bianchi, evidentemente consapevoli delle enormi ingiustizie nel paese). In primavera tra i neri statunitensi si sono contati più di 23mila decessi dovuti al covid-19. Il virus si è insinuato nelle comunità nere, evidenziando e aggravando disuguaglianze sociali radicate che hanno reso gli afroamericani particolarmente vulnerabili alla pandemia.
Questa sconvolgente perdita di vite umane si è verificata con le restrizioni più severe e il massimo distanziamento fisico. Cosa succederà quando nel paese si riaprirà tutto nonostante l’aumento dei contagi? Mentre i funzionari pubblici (soprattutto bianchi) spingono per tornare al più presto alla vita normale, il dibattito sulle conseguenze devastanti della pandemia per gli afroamericani si fonde con problemi sottostanti, ormai accettati come una sorta di “nuova normalità” in cui dovremo imparare a vivere, o a morire. Forse in passato qualcuno poteva anche mettere in dubbio che negli Stati Uniti la vita degli afroamericani poveri non avesse nessun valore. Ora su questo non c’è più alcun dubbio. Tra l’altro è evidente che la violenza dello stato non arriva solo dalla polizia. Non è solo il tasso di mortalità più alto tra gli afroamericani ad alimentare la rabbia, ma anche l’assistenza sanitaria negata ad alcuni neri perché i medici e gli infermieri non credevano che avessero davvero i sintomi del covid-19.
Sempre colpevoli
Altrettanto terrificante è l’idea, diffusa in certi ambienti, che gli afroamericani siano in qualche modo responsabili per questa mortalità sproporzionata. Invece di approfittare di questa crisi epocale per cambiare le condizioni che hanno favorito i decessi tra i neri, le forze dell’ordine continuano ad agire in modo meschino e sprezzante. Per gli agenti di polizia perfino le norme sul distanziamento fisico sono diventate una scusa per tormentare gli afroamericani. A New York i neri rappresentano il 93 per cento delle persone arrestate per reati legati al covid-19, e a Chicago le cifre sono simili. In un momento in cui i dipartimenti di polizia promettono di ridurre gli arresti per arginare la diffusione del virus nelle carceri e per preservare la salute pubblica, gli afroamericani restano nel mirino degli agenti. Per quale motivo i poliziotti hanno deciso di arrestare George Floyd, colpevole al massimo di un reato di “povertà” commesso dai più deboli?
Quando gruppi di bianchi armati fino ai denti hanno manifestato in Michigan e in altri stati minacciando i parlamentari, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump li ha definiti “persone per bene”, e la polizia li ha sostanzialmente lasciati fare. Di sicuro nessuno è stato soffocato a morte per strada. Invece il 28 maggio, quando il governatore del Minnesota ha mandato la guardia nazionale a disperdere le manifestazioni, Trump ha insinuato che le forze dell’ordine avrebbero dovuto sparare su chi protestava. Molti funzionari dichiarano di comprendere la rabbia della gente, ma resta il fatto che i manifestanti nelle strade di Minneapolis devono fare i conti con i lacrimogeni e i proiettili di plastica della polizia. Questo usare due pesi e due misure ha contribuito a infiammare Minneapolis ed è il motivo per cui la situazione può degenerare in qualsiasi città degli Stati Uniti.
Le persone scendono in strada per rivendicare i bisogni essenziali della vita, tra cui il diritto a non essere perseguitati o uccisi dalla polizia
La rabbia che esplode nelle strade va ben oltre l’ipocrisia del diverso trattamento riservato ai manifestanti bianchi e conservatori rispetto alla folla multietnica che protesta contro la brutalità della polizia. Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia, a quello di Breonna Taylor da parte della polizia di Louisville, nel Kentucky, e a quello di Tony McDade, un transessuale nero ucciso per mano degli agenti di Tallahassee, in Florida. Casi che erano stati regolarmente ignorati fino a quando la protesta ha costretto il paese ad affrontarli, e questo nonostante gli statunitensi siano chiusi in casa e affamati di notizie. Nel frattempo si è parlato molto anche del caso della donna bianca che al Central park di New York ha chiamato la polizia per denunciare un nero che le aveva semplicemente chiesto di mettere il guinzaglio al cane. La morte di George Floyd ci ricorda quali possono essere le conseguenze di una telefonata come quella.
Ma dalle proteste che stanno sconvolgendo Minneapolis e altre città statunitensi emerge anche un altro dato inequivocabile: la sensazione che lo stato sia complice o incapace di portare un cambiamento concreto. Mentre Biden scherza dichiarando che i neri che non votano per lui non sono veri neri, la crisi nelle comunità afroamericane sembra non essere stata mai così seria, e si sovrappone alle notizie quasi quotidiane di violenze da parte della polizia o di qualche altra azione oppressiva del potere statale. Biden pensava che la sua battuta potesse farlo sembrare “in confidenza” con gli elettori neri, ma ha solo evidenziato la sua arrogante pretesa di poter parlare a nome dei giovani e dei poveri afroamericani. Biden, alla fine, si è rivelato simile agli altri politici benestanti, che non hanno saputo affermare la gravità del problema.
Il tracollo simultaneo della politica e del governo ha costretto le persone a scendere in strada – rischiando la propria salute e quella degli altri – per rivendicare i bisogni essenziali della vita, tra cui il diritto a non essere perseguitati o uccisi dalla polizia. Quali sono le alternative alla protesta, quando lo stato non è in grado di svolgere le funzioni più elementari e poliziotti fuori controllo ricevono al massimo una bacchettata sulle mani per aver commesso crimini per cui una persona normale passerebbe anni in galera? Se non è possibile ottenere giustizia attraverso il sistema, bisogna cercare altri modi per cambiare le cose. Questo non è un augurio, è un presentimento.
La convergenza di questi eventi tragici – una pandemia che uccide sproporzionatamente i neri, l’incapacità dello stato di proteggere i neri e le violenze della polizia contro i neri – ha confermato qualcosa che la maggior parte di noi ha sempre saputo: se non ci mobilitiamo noi per difenderci, nessuna istituzione lo farà. I giovani afroamericani dovranno sopportare le ferite provocate dai proiettili di gomma e il bruciore dei lacrimogeni perché il governo li ha abbandonati. Black lives matter, le vite dei neri contano, solo se siamo noi a dargli valore.
In tutto questo non c’è niente di nuovo. Dopo la seconda guerra mondiale gli afroamericani delle città subirono le contraddizioni di un paese che aveva mandato un uomo sulla Luna ma nel frattempo permetteva che i topi dilaniassero i bambini neri nelle culle. All’epoca il governo costruì alloggi popolari che nei fatti segregavano ulteriormente la comunità afroamericana. Dovunque i neri guardassero, vedevano solo uno stato indifferente e corresponsabile della loro sofferenza.
Quella situazione partorì le rivolte dei neri che travolsero le città statunitensi negli anni sessanta, mentre il movimento per i diritti civili emergeva nel sud del paese. L’incapacità dello stato di soddisfare le richieste degli afroamericani spinse centinaia di persone a mobilitarsi. Che la società bianca approvasse o no non aveva alcuna importanza, come non ce l’ha ancora oggi. L’unica cosa che contava era che il meccanismo formale per il cambiamento sociale aveva fallito, e che gli afroamericani dovevano difendersi da soli.
Sei anni fa le proteste a Ferguson, nel Missouri, hanno aperto la strada al movimento Black lives matter, che combatte le stesse disuguaglianze del passato. Paradossalmente Black lives matter emerse proprio durante il mandato del primo presidente afroamericano, Barack Obama, e in un momento in cui i parlamentari di colore erano più numerosi che mai. Questo perché la crescita del potere politico dei neri non aveva saputo arginare la quotidiana violenza della polizia, né fermare l’aumento degli afroamericani senza una casa, la crescita del divario economico razziale o la valanga di debiti universitari che sommergeva i giovani. All’epoca non importava se le aspettative su Obama erano eccessive. Contava solo il fatto che il governo non sapeva migliorare la vita delle persone. E così gli afroamericani decisero di protestare, per dare un valore alle loro vite.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal New York Times.
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