Lo stato d’emergenza è un segno di debolezza
La guerra, dunque. François Hollande ha assunto, come sa fare, il suo atteggiamento più marziale per rivolgersi al parlamento riunito e all’intero paese. Con la gravità del tono, con la qualità delle formule usate, con la forza del discorso, il presidente ha indicato sia la portata di questa prova storica sia un’importante svolta politica.
L’aumento dei mezzi di sicurezza, l’espulsione degli stranieri coinvolti in attività terroristiche, la cooperazione internazionale contro il terrore, l’intensificazione delle operazioni contro il gruppo Stato islamico (Is), sono legittimi. Tanto più che questi annunci sono inquadrati dal richiamo ai princìpi di libertà e completati dalla volontà di rispettare il diritto d’asilo.
Sempre pronta a sfruttare la situazione, la destra si ritrova adesso in una situazione delicata: approvare il discorso presidenziale o chiedere di andare più lontano, cosa che rischierebbe di farci uscire dai limiti dello stato di diritto così come è concepito in democrazia.
Se di guerra possiamo parlare, si tratta di una guerra asimmetrica
Non è certo il momento di fare del buonismo. Gli assassini dell’islamismo ci hanno scelto come obiettivo non per quello che facciamo ma per quello che siamo, simboli di un modo di vita libero, autonomo, laico, pacifico. Questa lotta è senza tregua. L’allargamento della guerra alla stessa Parigi non può rimanere impunito. L’Is deve pagarne le conseguenze. Dobbiamo raccogliere la sfida, come qualunque democrazia che si rispetti, coraggiosa, ferma, salda nei suoi princìpi. Tuttavia l’uso ripetitivo della parola “guerra”, come fa la destra, e il suo uso più moderato e impreciso da parte del governo, pone degli interrogativi.
Tutti sanno cosa significa una guerra: lo scontro di due stati che riuniscono tutte le loro forze per imporre con la violenza la loro volontà alla nazione nemica, spezzando la sua capacità di resistenza. Uno scontro che mette uno di fronte all’altro due eserciti costituiti, con offensive in grande stile, invasioni, bombardamenti di massa, popolazioni deportate, decine di migliaia di perdite umane, distruzioni terribili e massacri quotidiani. Questa guerra, quella vera, sospende il corso normale del tempo, esige misure eccezionali e sacrifici immensi.
Arsenale morale
Come tutti possono vedere, quello che viviamo è ben altro. Se di guerra possiamo parlare, si tratta di una guerra asimmetrica, siamo al cosiddetto iperterrorismo. La componente aeronavale dell’esercito francese è impegnata in un conflitto in Siria e in Iraq. Ma sul territorio europeo si tratta di un conflitto nell’ombra, incerto, ambiguo, con i suoi lampi di terrore e le sue reti occulte, i suoi crimini ciechi e le sue operazioni segrete.
Un conflitto nel quale la continuazione della vita quotidiana, il mantenimento delle garanzie di diritto, il rifiuto di mostrare la propria paura, peraltro pienamente legittima, formano una componente decisiva dell’arsenale morale della società. Qualcuno dirà che il richiamo ai princìpi rischia di limitare la nostra reazione. Ma la verità è esattamente il contrario. Chi dice questo non ha fiducia nella democrazia stessa. In generale sono le democrazie ad aver vinto le guerre, come quelle contro le grandi tirannie del ventesimo secolo, in cui le dittature hanno perso la partita. La libertà non è una debolezza, anzi è proprio la libertà a sostenere il coraggio dei popoli.
In questa situazione dobbiamo esaminare con attenzione l’arsenale di nuove misure presentate al parlamento. Si sa dove ci ha portato la strategia di George W. Bush. In circostanze analoghe gli altri paesi europei non hanno proclamato lo stato di emergenza. La sua proroga in Francia è giustificata? Le misure eccezionali di cui si parla sono conformi ai nostri princìpi? Per battersi ci vuole un ideale. Cominciare con l’intaccarlo significa indebolirsi già dall’inizio.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Questo articolo è uscito su Libération. Clicca qui per leggere l’originale .