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Rassegnarsi ai cambiamenti climatici è peggio che negarli

L’Avana, Cuba, il 10 settembre 2017. (Yamil Lage, Afp)

Alla base della negazione dei cambiamenti climatici non ci sono dati oggettivi, ma la fede. E la fede può assumere varie forme, anche quella dell’umorismo nero.

La scorsa settimana, mentre gli uragani più devastanti mai osservati flagellavano i Caraibi e gli Stati Uniti meridionali, Scott Pruitt, il politico repubblicano che guida l’Agenzia di protezione ambientale degli Stati Uniti, ha dichiarato che non erano quelli “il luogo (e il momento)” per discutere “le cause e gli effetti di queste tempeste”.

Ha parlato con la sicumera di un uomo messo ai vertici di quella stessa agenzia che aveva cercato di distruggere per tutto il decennio precedente, e la sfacciataggine di chi cercava di fingere di non essere appena inciampato e scivolato in una clamorosa figuraccia a impatto ambientale.

Abbiamo prove sufficientemente schiaccianti che questi uragani siano causati dai cambiamenti climatici. Esistono poi altre spiegazioni, meno razionali ma più rassicuranti, come la convinzione di alcuni cristiani evangelici, che tutto questo rientri in una profezia sulla fine del mondo – legata in qualche modo all’eclissi solare di agosto – per cui la cosa giusta da fare è convertire un maggior numero di peccatori piuttosto che fare provvista di acqua potabile.

Naturalmente noi siamo diversi. Siamo persone sensate che credono nella scienza. Quindi è diverso quando siamo noi a negare i cambiamenti climatici.

La propensione umana a non provare empatia di fronte a un numero di vittime troppo alto è ampiamente documentata

Se il momento in cui imperversano i più catastrofici eventi climatici che abbiano toccato il territorio statunitense negli ultimi anni è il momento sbagliato in cui parlare di cambiamenti climatici, allora è decisamente anche il momento sbagliato per dire che simili catastrofi hanno avuto luogo al di fuori degli Stati Uniti per molti anni senza che il mondo si mostrasse particolarmente preoccupato.

Alle persone non piace che gli si ricordi quanto è sgradevole il loro relativismo morale quando la loro casa è sommersa dall’acqua. E certamente non gradiscono che gli si chieda perché le 1.200 persone morte nel corso d’inondazioni avvenute in Asia meridionale le addolorino meno delle settanta vittime causate in Texas dall’uragano Harvey la stessa settimana. Si tratta di una di quelle “cose vere ma inutili”.

La propensione umana a non provare empatia di fronte a un numero di vittime troppo alto è stata ampiamente documentata. Paul Slovic, professore di psicologia all’università dell’Oregon, la definisce “intorpidimento psichico”. Per questo motivo qualsiasi articolo su un disastro naturale comincia con la storia di una singola vittima: è più probabile che ci colpisca di più la morte per annegamento di un singolo bambino con un nome e una storia, che quella di cento bambini.

Empatia diversificata
Temo però che non si tratti solo di questo. La Florida e Cuba sono alla stessa distanza dal posto dove vivo, ma qui i mezzi d’informazione e la Bbc stanno seguendo gli effetti dell’uragano Irma sugli Stati Uniti con molta più attenzione di quanto non facciano con quelli della stessa tempesta nei Caraibi. Non voglio attaccare nessuno per i suoi pregiudizi personali. Quello che importa è se lasciamo o meno che sia la nostra empatia a determinare la nostra reazione.

È possibile che il movimento a difesa del clima si sia scavato la fossa da solo fin dall’inizio, dando per scontato che gli esseri umani siano attori politici razionali che possono essere spinti ad agire da fatti concreti, e non persone che si nascondono nel loro letto, urlando cose farneticanti sull’apocalisse.

È facile scendere a patti con la realtà del resto del mondo quando la propria rimane immutata

La negazione, naturalmente, è una delle fasi del dolore e quando le persone devono rinunciare ad alcune certezze sulle quali sono basate le loro vite, rispondono come farebbero quando perdono una qualsiasi cosa che amano. Ovvero disconoscendo, stupendosi, arrabbiandosi, deprimendosi. E negoziando. Di tutte queste reazioni, la contrattazione è di gran lunga la più pericolosa, ed è il tipo di ostacolo nel quale incappa la maggior parte di noi mentre cerchiamo di raggiungere quel consenso che potrebbe ancora evitare al nostro pianeta di essere sommerso dallo scioglimento dei ghiacciai della reciproca distruzione.

Senso di colpa e sollievo
È facile scendere a patti con la realtà del resto del mondo quando la propria rimane immutata. L’altro giorno, mentre gli abitanti del golfo del Messico cercavano scampo da due gigantesche tempeste, mangiavo degli spaghetti con alcuni amici in un locale di un tranquillo e grazioso paese del nord Europa, confessando un misto di senso di colpa e sollievo all’idea che i peggiori effetti dei cambiamenti climatici provocati dall’uomo non ci avrebbero toccato per ancora qualche decennio.

Si tratta di un pensiero orribile, così orribile che viene la voglia di fingere di non averlo mai avuto, finire la propria carbonara ed evitare di parlarne. Ci sarà tempo per farlo in futuro. Basta decidere che forse Gesù ama noi, i nostri amici e i nostri familiari un po’ più di quanto ama quei milioni di uomini, donne e bambini che rischiano la morte per lo stress termico che colpirà l’Asia meridionale nel prossimo decennio. O decidere che, forse, noi meritiamo di sopravvivere: certo, tutti meritano di sopravvivere, ma noi forse lo meritiamo un po’ più degli altri.

Il problema è che quest’atteggiamento riguarda le persone più ricche e potenti. Una sconvolgente inchiesta di Evan Osnos, uscita a gennaio sul New Yorker (e su Internazionale numero 1215-1217), rivela che molte delle più ricche famiglie degli Stati Uniti si stanno costruendo dei bunker e stanno preparando dei piani di salvataggio per quando arriverà la fine del mondo che conoscono.

Le persone che frequentano il forum economico di Davos non sono arrivate dove sono oggi dopo essere state bocciate in quinta elementare. Sanno benissimo quel che sta per accadere, e non vogliono trovarsi nel posto sbagliato al momento dell’impatto. Qualunque cosa succeda, possono essere piuttosto certe che avranno accesso a cibo, farmaci e aria condizionata. Abitano su un pianeta diverso, e quindi sono pronte ad addolcire il loro nichilismo con le ceneri di quello dove il resto di noi deve continuare a vivere. L’unica cosa più pericolosa di negare i cambiamenti climatici è che lo accettino proprio le persone che invece potrebbero decidere di agire.

Quel che potreste provare o meno nei recessi più vili della vostra coscienza a proposito delle catastrofi climatiche che colpiscono migliaia di persone in paesi lontani è esattamente quel che provano nei nostri confronti le persone che potrebbero porre fine a tutto questo. Sanno che anche noi siamo in pericolo. E naturalmente gli dispiace. Semplicemente non abbastanza da spingerle a scomodarsi per farla davvero finita con i combustibili fossili, o da concepire dei progetti per trovare una sistemazione a un miliardo di rifugiati climatici. Tutto questo riguarderà altre persone. Persone le cui vite, semplicemente, sono meno importanti. E tra queste persone, stavolta, ci siamo voi e io.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale britannico New Statesman.

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