Il nuovo film di Woody Allen, To Rome with love, è stato stroncato dalla critica italiana. Un rimprovero ricorrente è quello di aver presentato una Roma da cartolina illustrata, un’Italietta popolata da caricature nazionali: dal vigile urbano bonario ai due sposini provinciali (di Pordenone, per l’esattezza) impauriti dalla metropoli e vestiti all’antica come due comparse uscite di un film di Dino Risi degli anni sessanta.
Molto rappresentativo è il commento di Valerio Sammarco su [Il cinematografo][1]: “La città eterna sembra quella ritratta dalle cartoline in vendita per i turisti”. Gli fa eco Marianna Cappi di [My Movies][2]: “Certo il colpo d’occhio dello straniero sui costumi della capitale è da maestro di sintesi e cinismo, tutti gesticolano, spuntano i nani e le ballerine”.
E su [L’Espresso][3] Denise Pardo infierisce: “A piazza di Spagna passeggiano gli innamorati accompagnati da Volare e Arrivederci Roma. Secondo Woody siamo ancora così […] Unico dettaglio mancante: nessuna femmina italica ha un accenno di baffi. Che distrazione!”.
Da italiano adottivo mi trovo sostanzialmente d’accordo. L’unico momento in tutto il film in cui sono veramente scoppiato a ridere è stato alla fine, quando veniamo a sapere che il nostro bonario vigile urbano abita in un appartamento a piazza di Spagna, angolo via Condotti. Avrà vinto la lotteria ma gli piace troppo il suo lavoro per rinunciare?
Eppure, la reazione italiana mi fa venire in mente ancora una volta che c’è un rapporto molto stretto tra sensibilità allo stereotipo e vicinanza geografica/culturale al suo oggetto. Le recenti cine-peregrinazioni stile Alpitour di Woody ne forniscono un buon esempio.
Ecco David Edwards del quotidiano britannico [Daily Mirror][4] su Match Point, il primo dei due film di Allen con Scarlett Johansson ambientati a Londra, che era stato sostanzialmente bene accolto in Italia: “I registi americani fanno sempre così: dipingono la nostra sporchissima capitale (‘our filthy capital’) come un paese da fiaba dove tutti abitano in enormi appartamenti vista Tamigi, vanno nelle boutiques a comprare pullover di cachemire e guidano macchine rombanti. Ho visto perfino una Mini con la bandiera britannica dipinta sopra, per l’amor di dio”.
Certo non tutti i critici britannici andavano giù così pesanti, ma la versione alleniana di Londra non piacque un granché nemmeno a chi aveva qualcosa di positivo da dire sulle qualità artistiche del film. Ed è forse eloquente il fatto che il secondo film londinese di Woody, Scoop, nemmeno uscì, in Gran Bretagna.
Passiamo alle critiche francesi di Midnight in Paris. Su [Filmosphere][5], Nicolas Gilli ripassa le “cartoline postali” di un regista che definisce un “bon cinéaste du cliché ambulant”: “Il Moulin Rouge, gli Champs Elysées, Montmartre, l’Arc de Triomphe… tutto ci passa davanti, come se Woody, con la quarta marcia ingranata, ci stesse mostrando i suoi più bei foto-ricordi della nostra capitale”.
Citato da Didier Péron su [Libération][6], il regista francese Robert Guédiguian domandava, dopo aver visto il film, a cosa pensasse Allen quando guardava la Francia: “Pensa per caso agli smicard (cioè quelli che guadagnano solo il salario minimo nazionale)? O ai disoccupati?”. Per lo più, i critici di altri paesi non sollevavano queste obiezioni, cioè accettavano molto di più la Parigi romantica proposta da Allen (per A.O. Scott, critico del New York Times, la città qui dipinta era addirittura “immune dai suoi abbondanti clichés”).
Ormai credo di aver dimostrato la tesi, ma finisco citando anche una lamentela di alcune recensioni catalane di Vicky Cristina Barcelona, la tappa spagnola (scusate, catalana) del tour europeo di Woody, perché offre una variante interessante.
Critici come Juan Orellana, oppure Federico Jiménez Losantos puntano il dito contro quello che Losantos definisce “una españolada de tomo y lomo” (una vera “spagnolata”) che mostra, scrive Orellana, “una Barcelona castellanoparlante” con tanto di flamenco. Con l’assurda aggiunta che una delle due protagoniste americane che approda a Barcellona finisce per studiare spagnolo perché, dice, la lingua e la cultura catalane la affascinano.
Dunque qui la critica non è tanto sugli stereotipi nazionali, ma sugli stereotipi nazionali applicati fuori luogo, come se un turista americano a Bolzano fosse deluso per la mancanza di atmosfere da pizza e mandolino (ma a volte le località fuori luogo si adeguano: vedi le canzoni napoletane che si sentono cantare in gondola a Venezia).
Non so esattamente che conclusioni trarre, se non che:
• i cliché nazionali hanno sempre qualcosa di vero: se gli altri ci vedono così, un motivo c’è.
• I cliché nazionali ci offendono perché pensiamo di essere diversi, molto più complessi. Noi ci vediamo da dentro, non da fuori. Lo shock di vedere come gli altri ci guardano è paragonabile a quello di sentire la propria voce registrata per la prima volta.
• Detto questo, i cliché nazionali hanno sempre anche qualcosa di falso.
• Questo qualcosa di falso ha una funzione rassicurante per chi non è oggetto del cliché: è una seconda pelle protettiva che, caratterizzando le altre culture in modo riduttivo, rafforza la nostra identità culturale.
E poi, siamo onesti, c’è anche il fatto che gli stereotipi nazionali a volte possono essere molto divertenti. La seconda volta che ho visto Lost in translation, film che ho amato molto quando l’ho visto al Festival di Venezia, fu dopo la polemica che accompagnò il debutto giapponese del film (dove è uscito tra l’altro in pochissime sale).
Polemica riassunta nelle parole del critico giapponese Osugi (nome d’arte di Sugiura Takaaki): “La storia di fondo è carina, per niente male; però l’immagine che il film offre del popolo giapponese è terribile!”. (Per un approfondimento, vedete questo articolo del Christian Science Monitor).
E in effetti Osugi ha ragione: alla seconda visione, ho trovato decisamente di cattivo gusto, per citare solo una scena, l’immagine di un Bill Murray in ascensore che giganteggia sopra una schiera di uomini d’affari giapponesi tutti uguali in giacca e cravatta. Alla fine che ci insegna questa barzelletta visiva? Che i giapponesi sono piccoli e per di più conformisti?
Però, e vero che mi sentivo anche un po’ fregato dal fatto che questa volta, allertato com’ero dalle critiche giapponesi, non mi era permesso ridere. Ahimé, il politically correct spesso uccide quella spontaneità istintiva che è alla base del nostro sense of humour.
Ma per finire con Woody, quello su cui ho glissato finora è che mentre la maggior parte della recensioni italiane di To Rome with love sono negative, Midnight in Paris era piaciuto a molti critici francesi. Molto bello a questo proposito il commento di Jean-Marc Lalanne su Les Inrockuptibles: “Midnight in Paris n’est donc pas du cinéma de carte postale, mais un film sur les cartes postales”. (Midnight in Paris non è, dunque, un film da cartolina, ma un film sulle cartoline”).
Credo che la spiegazione sia semplice. Midnight in Paris è un film molto più bello. È una storia dolce-amara sulla tristesse e la nostalgia che fa leva, consapevolmente, su una certa idea romantica di Parigi. To Rome with love, invece, è un compendium di brevi racconti cinematografici che hanno solo legami casuali con Roma e la romanità.
Insomma, secondo me una parte delle reazioni negative della stampa italiana deriva dal fatto che Woody ha scelto proprio Roma per fare un film mediocre.
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