È passato il film forse più atteso del festival: The master, di Paul Thomas Anderson. E lo sto ancora digerendo.
Subito dopo la proiezione sono andato a tenere un workshop di critica cinematografica nell’ambito del progetto di Cineuropa 27 Times Cinema, con un gruppo di sei giovani critici e blogger europei. Ho provato a parlare da esperto, ma tutto il tempo, tra me e me, pensavo che ogni volta che esco dalla proiezione di un film comincia da capo tutta la croce e delizia di come raccontarlo.
Per quanto uno abbia studiato campo e controcampo, struttura narrativa,
effetto Kuleshov e tutto il resto, quella mediazione tra opera audiovisiva e recensione (o impressione) scritta mi rimane sempre qualcosa di misterioso da reinventarsi ogni volta.
Proprio come, nel film di Anderson, il figlio disincantato dice del maestro che dà il titolo al film: “Lo sai che sta inventando tutto mentre parla?”. Il maestro, Lancaster Dodd, è interpretato da Philip Seymour Hoffman, bravo come (quasi) sempre a caricare di sfumature ogni parola e ogni gesto. Quello che sta inventando, negli Stati Uniti dei primi anni cinquanta, è una nuova religione, o come minimo un nuovo culto psico-religioso che somiglia non poco a Scientology. E sì, in conferenza stampa il regista ha confermato che ha fatto vedere il film a Tom Cruise, uno degli accoliti più famosi di un movimento che fa un uso massiccio della legge contro la diffamazione come arma di difesa. Ma non ha rivelato quale sia stata la reazione di Cruise.
In realtà però il film non si occupa tanto nella nascita di una religione (che, almeno all’inizio, sembra più il Rotary Club che una setta pericolosa), quanto del rapporto tra maestro e discepolo. Il discepolo è Freddie Quell (Joaquin Phoenix), un ex marinaio alcolizzato e irrequieto che un giorno, poco dopo il suo ritorno da una guerra che lo ha lasciato con seri problemi mentali, s’imbarca da clandestino sulla nave di Dodd.
Due uomini a confronto
Subito tra i due si instaura un rapporto che ci intriga, perché in superficie sono due uomini totalmente diversi. Dodd è elegante, benestante, come la piccola banda di familiari e seguaci che assimila il suo cocktail di pseudoscienza ed esercizi parapsicoanalitici. Quell invece è, come gli fa presente più volte Dodd, una bestia: istintivo, rozzo, violento, a volte stupido, a volte furbo. Uno degli elementi più impressionanti dell’interpretazione di Phoenix è il modo in cui fa trasparire questa tensione animalesca in tutto il corpo, con la schiena ricurva, l’andamento dondolante, le mani spesso chiuse a pugno, pronte a colpire.
La colonna sonora di Jonny Greenwood, che aveva già collaborato con Anderson per Il petroliere, è maestosa. Spesso agisce in contrappunto con l’azione, svelando i bluff di Dodd e la cultura dell’apparenza di una America tutta acqua e sapone con degli accordi cupi. Una parte è composta ex novo, una parte deriva da una composizione orchestrale recente del chitarrista dei Radiohead, 48 responses to polymorphia (un omaggio a Krzysztof Penderecki).
Ma per tornare al mio dilemma iniziale, una cosa che ho insegnato ai miei studenti del workshop è che il modo in cui un film evolve in testa, dopo averlo visto, è importante. Ma è altrettanto importante rievocare cosa si è provato mentre lo si guardava.
Ecco la mia esperienza nel guardarlo: The master è un film affascinante e frustrante insieme, perché Anderson ha seguito alcuni temi e alcuni personaggi così in pronfondità – soprattutto Quell, il discepolo – che ha dimenticato di tracciare un arco drammatico. È un film molto ricco che conclude poco. Se ci metti molto tempo a digerire un film, non vuol dire necessariamente che sia un capolavoro. Può anche significare che l’opera stessa è indigesta.
Scusatemi per la mancanza di un corredo video sul post di oggi: non ho avuto tempo. Vi lascio invece con una foto che dimostra quanto può essere pericoloso prendere appunti al buio.
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