I critici cinematografici non si lasciano scioccare facilmente. Finora al festival abbiamo resistito a bagni di sangue e atti sadici di ogni genere. Forse Pietà di Kim Ki-duk è stato il film che ci ha messo maggiormente sotto torchio.

Il regista coreano non solo ci fa vedere (e sentire) in primo piano le mutilazioni che un aguzzino infligge alle sue vittime squattrinate per riscuotere i suoi crediti. Ma ci fa assistere anche a una scena quasi inguardabile: lo stupro, sempre da parte dello stesso aguzzino, della donna che si è presentata a casa sua dicendo di essere la madre che l’aveva abbandonato tanti anni prima.

Eppure abbiamo resistito. Anzi, per me,

Pietà è stato uno dei film più forti in concorso, un ritorno a quella vena di storie violente ma anche stranamente umane che ci ha fatto scoprire il nuovo cinema coreano nei primi anni del nuovo millennio. Penso a Old boy, ma anche a Ferro 3 dello stesso Kim.

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Comunque Harmony Korine, il figliol prodigo del cinema indipendente statunitense, che ha scritto la sceneggiatura di Kids a soli 21 anni, ha scoperto che esiste (eccome) un modo di scioccare i critici vecchia scuola. In Spring breakers, Korine usa il linguaggio e i valori del gangsta rap, dei reality, di Saranno famosi e Mtv per fare un film che non condanna questo mondo, ma in qualche modo lo asseconda.

In realtà, Spring breakers è un film più complesso di quanto non possa sembrare. Dietro allo sballo adolescenziale delle sue quattro ragazze protagoniste, che rapinano un ristorante per pagarsi la tradizionale vacanza liceale primaverile in Florida, tutta alcol, droghe, musica hi-nrg e sesso misoginista, si nasconde una favola a tratti melancolica su una generazione che deve ritrovarsi e crescere attraverso esperienze come queste, mentre noi avevamo la contestazione giovanile o il pellegrinaggio spirituale in oriente.

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Korine ci sta dicendo che questo mondo non è necessariamente peggiore, solo diverso. In realtà questa è una lost generation come quella di Fitzgerald negli anni venti o quella degli attivisti di sinistra francesi dei primi anni settanta che Olivier Assayas ci ha mostrato in Après mai.

Ma tanti critici svezzati su Eisenstein, De Sica e Godard non l’hanno capito. Korine monta il film come un deejay. Spring breakers sembra, almeno in superficie, un lungo video clip. È un assalto sensoriale che manda i vecchi linguaggi cinematografici a quel paese. E lo fa con uno slancio che io ho trovato esilarante.

A un festival del cinema tutto rischia di diventare virtuale. A volte uno non ha neanche l’energia di passare nella sala delle conferenze stampa: ci si accontenta di Robert Redford non dal vivo, ma in diretta…

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