Molti registi italiani famosi si sono cimentati con il documentario, primo tra tutti l’Antonioni di Gente del Po e Chung Kuo, Cina. Ultimamente anche registi come Alina Marazzi, Francesca Comencini e Pietro Marcello ci hanno ricordato che il sistema-cinema italiano non vive solo di finzione. Però non credo di dire una cosa troppo da inglese affermando che in Italia manca l’equivalente della grande documentary school statunitense, quella che ha prodotto figure come Errol Morris, Frederick Wiseman e Alex Gibney, tutti e tre presenti alla Mostra del cinema di Venezia quest’anno.
Forse non è un caso, allora, che uno dei documentaristi italiani più interessanti degli ultimi tempi, Gianfranco Rosi, nato ad Asmara in Eritrea e laureato in Italia, si sia formato da regista negli Stati Uniti, alla New York university film school.
Sacro Gra, il terzo lungometraggio di Rosi, è in concorso quest’anno a Venezia. Meritatamente, posso aggiungere dopo averlo visto. È un documentario sul Grande raccordo anulare di Roma, ma più che il ritratto di una strada è un affresco umano popolato da personaggi che vivono o lavorano nei pressi del raccordo autostradale, la cui costruzione cominciò nel 1948 per finire solo nel 1970 con l’inaugurazione della sezione Aurelia-Flaminia.
C’è il pescatore di anguille che vive su una zattera sotto l’ombra di una cavalcavia sul Tevere. C’è un principe improbabile, un personaggio che sembra uscito da un film di Paolo Sorrentino, che vive ai margini occidentali del Gra, in mezzo alla cementificazione della zona Boccea, in un castello che diventa, a seconda delle richieste, set cinematografico, location per fotoromanzi, bed and breakfast, sala convegni, e chi più ne ha più ne metta.
C’è un barelliere del 118, “romano de Roma”, che gira con la sua ambulanza, uno che non ti sorprenderesti di trovare in curva sud la domenica, ma che si rivela un angelo dei nostri tempi. C’è un uomo barbuto, colto e distinto (un nobile piemontese, secondo il pressbook) che vive con sua figlia in un piccolo appartamento di uno di quei palazzi moderni che vedi percorrendo il Gra. Ci sono le zoccole, le danzatrici à la Coyote Ugly, il botanico che cerca di trovare un rimedio per l’invasione del punteruolo rosso che sta devastando le sue palme.
Montato con rara maestria, il risultato è un film corale su come l’affetto, l’amore, la cultura e la dignità umana trovano delle strategie di sopravvivenza anche in un non-posto come il Gra, definito da Renato Nicolini come “un’opera eccentrica, totalmente fine a se stessa, che maschera e nasconde le contraddizioni della città”. Chi avrebbe mai detto che il Grande raccordo potesse rappresentare anche il cerchio della vita?
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