Ho appena visto The spirit of ‘45, il bel documentario di Ken Loach su quell’ondata di solidarietà e voglia di cambiamento che invase il Regno Unito dell’immediato dopoguerra e che portò prima alla vittoria elettorale dei laburisti di Clement Atlee, e poi alla creazione del welfare state.

Vale la pena ricordare i fatti. La seconda guerra mondiale era finita da meno di due mesi quando i britannici andarono a votare, il 5 luglio. Il mondo si aspettava un plebiscito per Winston Churchill, l’eroico statista che aveva affrontato e sconfitto Hitler, ma nel suo paese, pur godendo di rispetto, l’uomo con il sigaro era considerato da molti come il rappresentante di un Regno Unito privilegiato e patriarcale, distante anni luce dalla vita della maggior parte delle persone. Un conto era vincere una guerra, altra cosa era raddrizzare un paese dove povertà e disoccupazione erano ancora diffuse, e i conservatori di Churchill non potevano contare su grandi precedenti in materia.

I laburisti avevano appoggiato le proposte contenute nel Beveridge report del 1942, che sosteneva la creazione di un sistema nazionale per la sanità, uno per la scuola molto più esteso di prima, uno per la previdenza, e una svolta “sociale” nell’edilizia e dell’urbanistica. Gli elettori diedero al partito un mandato molto chiaro, e in un paio di anni tutte le misure entrarono in vigore.

Si trattò di una vera rivoluzione sociale. Luigi Meneghello, che nel 1947 era borsista del British council all’Università di Reading (e lì sarebbe rimasto per più di trent’anni, fondando la cattedra di italianistica), si meravigliò di trovarsi in un paese in cui regnava un socialismo centralizzato tanto forte. Il clima di giustizia sociale era così esteso che il razionamento del cibo valeva anche per gli atleti arrivati a Londra per le Olimpiadi del 1948 (alcuni di loro ricorsero alla carne di balena, fra le poche fonti di proteine non controllate dal governo).

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Da questi fatti, servendosi anche di filmati d’archivio (alcuni per me sorprendenti, come la contestazione a Churchill durante un comizio elettorale), Loach ha creato un documentario totalmente di parte, ma non per questo meno bello o incisivo. Perché il film, se racconta un’epoca in cui la politica appassionava e si credeva di poter cambiare un paese in meglio recandosi alle urne, ci ricorda anche che quella passione era indirizzata a un progetto concreto. Erano anni in cui un rapporto parlamentare – il Beveridge Report citato sopra – divenne bestseller, vendendo 600mila copie, e fu al centro di discussioni animate anche fra i soldati al fronte, che intendevano riscattare il debito che il paese aveva con loro.

 

Ecco il punto: nel luglio del 1945, gli inglesi (insieme agli scozzesi, ai gallesi e ai nordirlandesi) votarono un programma, non una persona, e quel programma fu poi puntualmente realizzato dai rappresentanti che avevano scelto. Il Regno Unito di David Cameron (ma il meccanismo è in atto almeno dai tempi della Thatcher) ha invertito i ruoli: eletto in un sostanziale vuoto di idee, il governo tende a formare il suo elettorato in corso d’opera, generando un contesto in cui alcuni intenti (come l’entrata dei privati ovunque, dall’università alla gestione delle carceri) diventino la nuova norma, il nuovo senso comune.

           

Ma non è solo al mio paese che penso mentre scrivo questo articolo. Sono contento della vittoria di Matteo Renzi alle primarie del Pd, contento perché questa scelta apre la possibilità di una svolta sociale del governo italiano. Ma sono anche preoccupato che questa vittoria sia una questione, più che altro, di culto della personalità e di sfocata fiducia nel nuovo che avanza. Adesso che c’è l’uomo è lecito chiedere un programma chiaro e definito, come quello che portò i laburisti al potere nell’ormai lontano luglio del 1945?

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