Al Lido di Venezia, durante la mostra del cinema, ti accorgi che è arrivato il fine settimana solo perché le file per entrare nelle sale sono più lunghe e i vaporetti sono pieno di famiglie veneziane che vanno in spiaggia. Altrimenti, durante i dodici giorni del festival, resti fuori dal tempo e dallo spazio. I giorni, scanditi dalle proiezioni, dalle conferenze stampa, dalle feste e dalle poche ore disponibili per scrivere gli articoli, sono tutti uguali.
Ci sono pochi fatti esterni che riescono a penetrare il guscio del festival. Una di queste è capitata durante la mia seconda esperienza al festival, nel 1997. Era l’anno di Hana-Bi di Takeshi Kitano (che vinse meritatamente il Leone d’oro), di Ovosodo, del rifacimento di Lolita da parte di Adrian Lyne e del bizzarro, inquietante Gummo di Harmony Korine. Ma era anche l’anno che, a cinque giorni dall’inizio, giunse la notizia della morte di Diana, principessa di Galles.
Lo straniamento con cui tutti i cineasti presenti al Lido hanno appreso la notizia era dovuto anche al fatto che una vita costruita a raccontata dai mezzi d’informazione come un film era finita in modo cinematografico nel bel mezzo di un festival di cinema. Ti venivano le vertigini a pensarci.
Un’altra conseguenza della full immersion dei festival è che non è facile fare paragoni fra le varie edizioni. Non puoi stappare sei annate per fare una degustazione verticale, anche perché il successo di un festival non è determinato solo dalla visibilità o dalla longevità dei film che presenta, ma anche da come i vari film si intrecciano. Per non parlare dello spirito d’annata, quello stato d’anima collettivo che si respira di volta in volta. Qualche tendenza a lungo termine si può comunque notare.
Venezia sta diventando sempre di più un festival per cineasti puri, lontano dal baraccone commerciale di Cannes. È un festival che si svolge in un posto così tranquillo che, a differenza del festival di Berlino, non torni in città ogni volta che esci dalla sala (ed è forse per questo che il Lido è un mondo a sé). È un festival amato da molta gente che lavora nel cinema. Per esempio dal direttore della fotografia irlandese Robbie Ryan, che ho conosciuto quest’anno ad una cena alla Villa degli autori, la sede della sezione parallela la Giornata degli autori (che ha presentato dei buoni film quest’anno). Robbie Ryan a Venezia 2011 si era aggiudicato il premio Osella per la miglior fotografia per Cime tempestose di Andrea Arnold. L’anno scorso era venuto con Philomena di Stephen Frears. Gli ho chiesto se era qui con un altro film quest’anno (non mi risultava), o magari in qualche giuria. “Nessuno dei due. Sono venuto per guardare dei film”, mi ha risposto.
Venezia però sta passando anche un momento delicato. Un po’ perché la città di Venezia continua ad applicare dei prezzi pre crisi, applicando la filosofia del “tanto i ven”, per dirlo in dialetto. Un po’ per la crisi dell’editoria e dei media. Eravamo molto di meno quest’anno. E se le cifre ufficiali nascondono il fenomeno è perché i numeri sono tenuti alti da un’armata di micro testate e blogger: alcuni di loro molto bravi, alcuni meno, ma pochi sono in grado di raggiungere più di una centinaio di persone.
E poi c’è la concorrenza dei tre festival americani: Telluride, New York e Toronto. Negli ultimi anni Toronto è diventato il Blob dei festival di cinema, crescendo a dismisura. Quest’anno ha in programma 393 film, comprese 143 anteprime mondiali (Venezia 2014 ha schierato 55 film nella selezione ufficiale, più 28 nelle due sezioni paralleli). Inoltre, Toronto comincia già prima che Venezia chiuda – per cui molti colleghi internazionali disertano il Lido due o tre giorni prima della fine.
Fino a qualche anno fa, Venezia riusciva ad aggiudicarsi le anteprime di molti dei film nordamericani e britannici “di qualità” che uscivano in autunno, tradizionalmente stagione di lancio per la campagna degli Oscars. Ma già da qualche anno questo non è più vero. Certo, gli ultimi due film d’apertura di Venezia sono stati azzeccati in questo senso: Gravity l’anno scorso, Birdman quest’anno – una parabola teatrale divertente, intelligente, con una messa in scena magistrale. Ma 12 anni schiavo è uscito a Toronto, non a Venezia. Mentre con Il discorso del re il festival di Telluride ha fatto da apripista, seguito di qualche giorno da Toronto. L’anno scorso, Toronto era riuscito a scippare a Venezia perfino un buon film italiano: L’intervallo di Leonardo Di Costanzo.
Quest’anno film come Nightcrawler, While we’re young e The theory of everything avrebbero benissimo potuti essere a Venezia. Ma la vera novità e il varco aperto dal New York film festival (26 settembre – 12 ottobre), che è riuscito ad aggiudicarsi ben due film che il direttore della Mostra di Venezia, Alberto Barbera, non ha nascosto di desiderare: Gone girl di David Fincher e Inherent vice di Paul Thomas Anderson.
Il risultato, quest’anno, era un festival con qualche star in meno e con un contingente americano in cui, oltre a Birdman, ha brillato solo il dramma 99 homes di Ramin Bahrani. Un festival dedito solo all’eccellenza cinematografica mondiale, con due picchi che valevano l’intero viaggio. Il primo era The look of silence di Joshua Oppenheimer, che prosegue sulla strada di The act of killing e crea un insieme che rappresenta la massima espressione dell’arte del documentario.
Il secondo è il film che si è aggiudicato il Leone d’oro, A pigeon sat on a branch reflecting on existence dello svedese Roy Andersson. Quattro anni di lavorazione, 39 scene in piano sequenza, per una commedia triste che ci ricorda come il vero senso della vita si trovi tante volte nei dettagli apparentemente insignificanti.
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