La fantascienza è un genere che dice più sul nostro presente che non sui mondi futuri che costruisce. Dai tempi di Jules Verne, è una cartina al tornasole che spesso si rivela più efficace del realismo nel rivelare le nostre preoccupazioni e speranze. In Verne, e più tardi in H.G. Wells, si ritrovava una strana commistione di fede nel progresso tecnologico, pulsioni coloniali e frustrazione per la meschinità umana, soprattutto per la nostra propensione verso la guerra: elementi che virano verso la parodia nel film che Georges Méliès ha tratto molto liberamente dalle sue opere, Le voyage dans la Lune.
Più tardi, il genere fantascientifico è stato adoperato per spezzare lance pro e contro le società costruite su base ideologica, poi per convertire le paure americane dell’era del maccartismo, della guerra fredda e della lotta contro la segregazione razziale in storie di invasioni aliene e ultracorpi che rubano l’anima. Con 2001: Odissea nello spazio, la fede nel progresso tecnologico comincia a venire meno, gli alieni sono ermetici, inarrivabili, e il viaggio nello spazio diventa viaggio trascendentale (siamo nel 1968).
E allora il film campione d’incassi Interstellar, diretto da Christopher Nolan e scritto insieme al fratello Jonathan, che cosa ci racconta del presente, o almeno del presente visto dalla prospettiva di Los Angeles?
Ci dice che viviamo un periodo d’inversione in cui anche la società liberale si sta ripiegando sul personale, sul passato, sulle emozioni anziché sulle idee. Ma questa involuzione è insidiata dalla paura che i valori tradizionali non siano più un rifugio sicuro. Vorremmo investire in beni affidabili come i rapporti familiari, l’agricoltura, le piccola comunità dove tutti si conoscono e si aiutano a vicenda. Vorremmo, ma ognuna di queste roccaforti è minacciata, ognuna è infetta da dubbi e assalita da pericoli.
La famiglia al centro del film è formata da un padre, un nonno e due figli: la madre è morta tempo fa. Nel corso del film sparirà anche il padre, Cooper, più interessato a fare l’eroe e salvare l’umanità che non a badare ai suoi figli, creando un corto circuito innaturale tra generazioni. Per questo suo errore al padre sarà inflitta una pena ancora più innaturale: rientrerà dallo spazio più giovane dei suoi figli. Anche in Gravity gli sceneggiatori hanno sentito il bisogno di punire un genitore solo: al personaggio di Sandra Bullock hanno rifilato una figlia morta in giovane età. Se solo non avesse insistito per fare l’astronauta, se si fosse accontentata di fare la madre “normale”.
L’agricoltura è rappresentata da un’icona americana: una casa di legno in mezzo a una distesa di grano. Ma non è più una rassicurazione, bensì una specie di gabbia: ormai l’umanità è costretta a concentrare tutte le sue risorse ed energie nel produrre cibo, perché il riscaldamento climatico e la moria delle coltivazioni hanno cospirato per rendere la prima e più importante attività umana una cosa incerta, piena di minacce.
La nostra mania del progresso e dello sviluppo ha finito per produrre l’effetto opposto, rendendoci sottosviluppati, pericolosamente dipendenti dalle monoculture, incapaci di svolgere una normale vita familiare o sociale. Le tempeste di sabbia che periodicamente investono la comunità agricola dove Cooper vive con la sua famiglia costringono ad apparecchiare il tavolo con i piatti capovolti o a interrompere una partita di baseball, immagini che in un contesto domestico americano sembrano quasi terroristiche.
In questo scenario di nuova regressione, la scienza e il pensiero razionale sono sotto attacco. I libri di scuola hanno sposato una delle teorie del complotto più diffuse dei nostri tempi dopo quelle sull’11 settembre: quella secondo cui lo sbarco sulla Luna fu una montatura, creata in uno studio televisivo per spingere i sovietici a sprecare le loro risorse nella corsa allo spazio. E la Nasa, simbolo di un ottimismo tecnoscientifico ormai screditato, è stata costretta ad andare (letteralmente) sotto terra, costruendo un’improbabile base nascosta dove, non si sa con quali risorse, si costruiscono navi spaziali capaci di passare attraverso condotti spazio-temporali per arrivare in galassie lontane dove ci aspetta (chi altro?) Matt Damon.
Ma se da una parte il film critica la nostra nuova diffidenza verso il pensiero razionale e il progresso scientifico, dall’altra la cavalca. Un’equazione ancora irrisolta su una lavagna, e che rappresenta il lavoro di una vita del malinconico professore interpretato da Michael Caine, si rivelerà fasulla, o comunque parte di una logica superata. In realtà l’ideologia del film è schizofrenica: è un’elegia per la scienza sotto attacco, ma ci chiede anche di credere nell’assurdo. Per esempio, che un astronauta particolarmente bravo sia in grado di calcolare sul momento una traiettoria per manovrare intorno a un buco nero. E il messaggio finale è frutto di una specie di spirito reazionario emozionale e antiscientifico: non dovete spremervi le meningi per capire le equazioni. La soluzione verrà dall’amore, non dal talento o da anni di studio.
Per Interstellar sono stati spesi milioni e milioni di dollari in effetti speciali per raccontare l’amore tra un padre e la figlia. In questa nuova fase della fantascienza americana la tecnologia è complessata, circoscritta da un enorme senso di colpa. E la frontiera finale è un luogo inospitale, che ha solo l’effetto di allontanarci dai nostri cari. Molto meglio restare a casa, o se proprio dobbiamo viaggiare, non spingerci oltre Saturno.
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