Cosa resta di Cannes in sette punti
La Palma d’oro scontenta-tutti
Per carità, Dheepan di Jacques Audiard è un buon film, la storia di una famiglia finta che diventa famiglia vera, anche se la sua trasformazione graduale da dramma dell’immigrazione a film di genere su un portinaio-giustiziere funziona meglio come idea che non come messa in scena. Ma sicuramente non era il migliore film in concorso. Per me, la decisione della giuria presieduta da Joel ed Ethan Coen porta tutti i segni di un compromesso. Forse Dheepan era l’unico candidato non odiato da nessuno. Per quanto riguarda l’esclusione degli italiani, sarebbe assurdo leggerlo come uno schiaffo al bel paese. Dopotutto, due dei tre film sono in lingua inglese con cast internazionale, e comunque la giuria non è tenuta a spartire i premi fra i paesi maggiormente rappresentati in concorso. Detto questo, tutti e tre avrebbero meritato un premio. Migliore regia a Sorrentino ci poteva stare benissimo, così come migliore attrice per Margherita Buy (Mia madre) e uno dei premi di consolazione come il Grand Prix o quello della Giuria per l’audacia di Garrone. Tra gli altri premi, quelli più condivisibili sono il miglior attore per Vincent Lindon – autentico e magnetico in La loi du marché de Stéphane Brizé – e miglior regia per Nie yinniang (L’assassina) di Hou Hsiao-Hsien – che pure avrebbe meritato di più.
La scena più memorabile
La loi du marché (La legge del mercato) di Stephane Brizé era il miglior dramma contemporaneo in concorso (Dheepan compreso). Attraverso la storia della ricerca di lavoro di Thierry (Vincent Lindon), un colletto blu qualificato ma disoccupato da tempo, il regista e cosceneggiatore fa un ritratto spietato della meschinità a cui la crisi economica riduce gli uomini. Quando finalmente trova lavoro come addetto della sicurezza in un ipermercato, Thierry scopre che uno dei suoi compiti è quello di sorvegliare il personale – beccando, per esempio, i cassieri che dimenticano di scannerizzare qualche articolo – perché il direttore sta cercando qualsiasi pretesto per ridurre l’organico. Ma forse la scena più eloquente è quella in cui Thierry fa vedere la casa mobile che ha in vendita a un potenziale acquirente. Nello spazio ristretto della cucina della casa mobile – simbolo di libertà e spensieratezza ridotta a triste ambiente, simulacro di vita – due coppie trattano sul prezzo. Però è una trattativa che non finirà mai: l’intransigenza di Thierry, che all’inizio sembra la strategia di un mercante furbo, diventa invece un grido di protesta contro un mondo in cui davanti al risparmio di qualche euro salta tutto – accordi fra le parti, solidarietà tra poveri, senso dell’umorismo, decenza umana.
Il rossetto di Carol
Sarà perché sono maschio ma di solito noto poco il rossetto dei personaggi femminili nei film; in molti casi farei fatica a dire, dopo i titoli di coda, se lo portavano o meno. Ma il rossetto portato da Carol, la coprotagonista del film omonimo di Todd Haynes, non si può non notare. È di un rosso carminio, sgargiante, un po’ trash, che contrasta con l’eleganza dei vestiti e della capigliatura di questa donna ricca, borghese e annoiata. È provocazione erotica, guerra di classe e di genere, desiderio di fuga.
Amy
Il documentario di Asif Kapadia su Amy Winehouse, la cantante inglese morta di intossicazione alcolica nel 2011 a soli 27 anni, mi ha regalato forse le due ore più emozionanti del mio soggiorno cannoise di quest’anno. Molte volte la qualità di un buon documentario biografico sta nella qualità della ricerca di archivi audiovisivi. Qui, a sbalordire, e a creare un arco drammatico che non è solo il racconto di uno scivolone auto-distruttivo, sono i filmati degli anni giovanili di questa ragazza londinese con la voce jazz d’oro: l’energia, l’ironia, la sicurezza di sé, il talento per la recita oltre che per la musica. È questa base di vitalità e gioia di vivere che rende quello che verrà dopo ancora più tragico. Winehouse non emerge come uno stinco di santo – ha respinto molti degli amici che cercavano di aiutarla – ma per Kapadia (autore di un eccellente documentario su un altro grande talento morto troppo giovane, Ayrton Senna) i suoi demoni erano più esterni che interni – una celebrità troppo grande arrivata troppo presto, l’assillo continuo dei paparazzi, un padre che sfruttava la fama della figlia per arricchirsi, una serie di compagni sbagliati. A rivedere in questo contesto il famigerato concerto di Belgrado, poco più di un mese prima della sua morte, quando Winehouse era a detta di tutti troppo ubriaca per cantare, viene fuori un’altra ipotesi. Era stata costretta dal suo manager a fare una tournée che non voleva fare, era stanca del sistema di cui era diventata succube. Per un musicista, andare in scena davanti a un pubblico pagante e non fare musica, o farla male, è l’ultima protesta; forse, nel caso di Amy, l’unica protesta possibile.
Quando il deus ex machina è una macchina
Ben due film in concorso hanno scelto di risolvere un nesso narrativo importante con un veicolo che entra a tutta velocità dal lato destro dello schermo e uccide uno dei protagonisti. Non vi dico quali siano i film. In entrambi, è lo shock dell’impatto violento e improvviso a prevalere in primo luogo. Dopo, riflettendoci sopra, una scena funziona perché ti costringe a interrogarti sull’incidente, a chiederti quanto c’è di accidentale. L’altra rimane un trucco pigro, da melodramma.
Spread the Love
Ho scelto di dormire anziché resistere fino alle 3 del mattino per vedere il film scandalo del festival, Love di Gaspar Noe. Mi sono risparmiato un’eiaculazione 3D e una penetrazione vaginale filmata dalla prospettiva del collo dell’utero. Dopo le recensioni – la maggior parte delle quali hanno giudicato questo triangolo amoroso un film “floscio” – non so neanche se ho più voglia. La cosa terribile dei festival è che quando, mesi dopo, escono i film che hai perso, la libido non c’è più.
Yakuza apocalypse
Il penultimo film che ho visto a Cannes era anche quello più divertente. Descrivere i film del regista Takeshi Miike come “variabili” sarebbe dir poco. Il problema con Miike è che fa troppi film, circa tre o quattro all’anno (infatti non era presente all’anteprima di questo, passato nella sezione parallela della Quinzaine, perché ne stava girando un altro; ma ha mandato un video messaggio in cui, vestito da geisha, ha promesso che non avrebbe fatto più film violenti). Ma Yakuza apocalypse è uno dei migliori film di Miike da anni, un ibrido svitato e comico di generi fra yakuza (sono i mafiosi giapponesi), zombi, vampiri e film per ragazzi. A volte il film sembra scritto proprio da un comitato di bambini delle elementari – per esempio, quando il guerriero più spietato, il terrorista moderno, entra in scena: ed è un uomo vestito da rana, con un costume liso di feltro verde, tipo parco giochi o apertura di centro commerciale.
Sotto sotto cova una metafora di com’è difficile fare il gangster succhia-sangue in una società che, in tempi di crisi, sta già succhiando il proprio sangue. Ma sarebbe un errore insistere sul significato profondo di un film che offre demenzialità allo stato puro. Al punto che, quando alla fine della proiezione la rana è arrivata in sala a salutare tutti, mi è sembrato del tutto normale.