Al sessantaseiesimo festival del cinema di Berlino ha vinto il film migliore, Fuocoammare di Gianfranco Rosi, un documentario commovente e lucido sull’isola di Lampedusa e sull’emergenza profughi che è stata costretta ad affrontare in questi anni. Ma in quest’ultimo dispaccio da Potsdamerplatz vale la pena di soffermarsi su due film che non figurano fra i premiati.
Se c’è una cosa che ti insegna la lunga frequentazione dei festival di cinema, oltre all’importanza di assumere abbastanza vitamina C e di avere una buona scorta di biancheria intima pulita, è che il mondo del cinema è grande e se lo girate per lungo e per largo non ci sono stereotipi o preconcetti nazionali che reggono.
Prendiamo l’Iran, per esempio. È vero che già attraverso i film di registi come Abbas Kiarostami, i Makhmalbaf padre e figlia o Jafar Panahi, ci siamo accorti, se non lo sapevamo già, che il paese degli ayatollah ha anche una vita culturale piuttosto sofisticata, almeno fra un circolo più o meno ristretto di artisti e intellettuali. Ma Ejhdeha vared mishavad! (È arrivato un dragone!) di Mani Haghighi, girato regolarmente in Iran con permesso ministeriale, sorprenderà anche chi conosce la ricchezza e la varietà del cinema persiano. In confronto, l’allucinogeno Vizio di forma di Paul Thomas Anderson sembra Piccole donne.
È un film bizzarro, bello ma sconcertante, una specie di sogno post-moderno ambientato nell’Iran del 1965, contornato da una colonna sonora rock ispirata, pare, dai Nine Inch Nails. La trama si incentra su tre uomini, un poliziotto dei servizi segreti dello Shah, un hippy che lavora come tecnico del suono e un geologo, che vanno nell’isola di Qeshm, nello Stretto di Hormuz, per gettare luce su uno strano fenomeno sismico legato a un vecchio cimitero e a una nave portoghese in mezzo al deserto. Ancora non so spiegarmi esattamente che cosa ho visto, né quanta allegoria politica ci fosse nella storia. Ma il quinto lungometraggio di Haghighi mi è comunque piaciuto molto: è un film denso, ludico, affascinante, e molto cinematografico.
Della stessa serie: chi avrebbe mai detto che si potesse girare in Arabia Saudita una commedia romantica in cui, per citare solo un episodio, una bella ragazza travestita da uomo, con i baffi, si mette dietro al volante di una Ferrari Testarossa e parte a tutta velocità? Barakah Yoqabil Barakah (Barakah incontra Barakah) del regista esordiente Mahmoud Sabbagh è passato a Berlino nella sezione Forum. Non è certo un capolavoro, neanche secondo i canoni del genere. Ma nel film che racconta del timido, casto innamoramento di Barakah, impiegato comunale della città di Jeddah, e la bella, ricca vlogger Bibi ci sono passione e charme.
Bibi si sta disinnamorando di un’attività che l’ha fatta diventare famosa a suon di like, ma non l’ha resa più libera all’interno della società saudita, anzi. Sia il suo agente, ansioso di farla firmare un contratto di testimonial prima che la sua bolla scoppi, sia i suoi genitori adottivi che la vogliono sposare a uno zio per legarla sempre di più alla famiglia, la trattano come merce di scambio. Si sente compresa solo dal mite Barakah, uomo miracolosamente (inverosimilmente?) privo del maschilismo che, si potrebbe argomentare, costituisce parte integrante della versione del wahhabismo che detta legge nel regno saudita. Bibi (un soprannome, all’anagrafe anche lei si chiama Barakah) si sente compresa, cioè, finché il suo amico-quasi-fidanzato chiede che tipo di reggiseno porta. Ma poverino, lui lo fa solo perché deve interpretare il ruolo di Ofelia in un allestimento di Amleto e il regista gli ha detto di cercare un reggiseno push-up…
Già così siamo ben fuori dei parametri che ci si aspetta da un film saudita, ma Barakah incontra Barakah si spinge oltre, prendendo in giro la censura del regime. Dopo i titoli di testa una didascalia recita: “Le zone pixelate che vedrete in qualche scena del film sono del tutto normali. Non sono da intendersi come un commento sulla censura. Ripetiamo, non sono da intendersi come un commento sulla censura”. Fra queste zone pixelate c’è il bicchiere di whisky che il padre di Bibi si versa nel salotto della sua lussuosa casa prima di buttare il contenuto per terra, si presume come concessione ironica verso le autorità religiose del paese.
Hisham Fageeh, l’attore e comico saudita che interpreta il protagonista maschile, ha già avuto un suo momento di gloria nel 2013 quando la sua versione della canzone di No woman, no cry di Bob Marley è diventata un successo virale. Qualcuno ha obiettato che in No woman no drive non è chiaro se Fageeh è contrario o a favore del diritto delle donne di guidare una macchina. Quel qualcuno non capisce come dev’essere difficile fare satira in un paese come l’Arabia Saudita e quanto coraggio c’è in questa piccola (si fa per dire) commedia romantica.
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