Data la reputazione del primo ministro ungherese Viktor Orbán, definito un dittatore e un autocrate (per quanto “morbido”), non ho potuto fare a meno di chiedermi – in quanto russo che vive a Budapest – se il suo governo somigli in parte a quello di Vladimir Putin. Ho quindi chiesto un parere ad alcune mie conoscenze più informate, sia sostenitori di Orbán sia persone della società civile prese di mira dal governo e dai mezzi d’informazione che lo sostengono.

Alla fine credo che il modo in cui Orbán guida il suo paese abbia dei punti in comune con quello di Putin. Ma le differenze, almeno finora, superano le analogie, e riguardano aspetti cruciali che determinano se un paese sia una dittatura oppure una democrazia. È importante distinguere tra un governo che porta avanti legittimamente delle politiche illiberali e spesso dannose, e uno che è fondamentalmente illegittimo, repressivo e pericoloso per i suoi cittadini, indipendentemente dal fatto che questi se ne rendano conto o meno.

Orbán e Putin sono ossessionati dalla sovranità, che i loro critici definirebbero potere personale senza limiti. Il loro obiettivo è impedire a qualsiasi forza esterna di minare la loro capacità di prendere decisioni per conto del proprio popolo, che si tratti di paesi occidentali più ricchi, grandi multinazionali oppure organizzazioni non governative. Orbán, tuttavia, ha perseguito lo scopo in maniera più raffinata di Putin. Questa raffinatezza non va scambiata per “morbidezza”, ma è semmai un maggiore senso del limite.

Il rispetto delle regole
Quando ho chiesto a Gergely Gulyás, capogruppo parlamentare del partito al potere Fidesz, se la vittoria schiacciante del suo partito alle elezioni dell’8 aprile gli abbia ricordato la vittoria di Putin in Russia, il 18 marzo, ha risposto stizzito: “Mi ricordano molto di più le elezioni bavaresi” (in Baviera l’Unione cristiano sociale, che ha forti legami con Fidesz, è in testa ai sondaggi per le elezioni statali di ottobre con margini simili a quelli registrati dal partito di Orbán). “Ho letto articoli che paragonano Orbán e Trump a Putin ed Erdoğan, ma è una visione puramente giornalistica”, ha proseguito. “Siamo una normale democrazia pluralistica che rispetta le regole europee”.

Le regole europee, naturalmente, ammettono qualche eccezione e l’Ungheria non è esattamente la Baviera. Gli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) hanno rilevato una “costante coincidenza tra i messaggi della campagna elettorale della coalizione al potere e la campagna anti immigrazione, anti Bruxelles, anti Onu e anti Soros del governo ungherese, evidente soprattutto nei cartelloni pubblicitari” e nell’“inattesa distribuzione di denaro pubblico” durante la campagna elettorale. Nessuna delle due cose è una pratica corrente nelle democrazie più solide. Allo stesso tempo gli osservatori hanno rilevato un “alto livello di opposizione”.

Basterebbe confrontare la cosa con quanto scritto dall’Osce a proposito della rielezione di Putin di marzo: “Ostacoli alle libertà fondamentali di riunione, associazione ed espressione, oltre che di registrazione nelle liste elettorali, hanno limitato lo spazio di partecipazione politica e hanno prodotto un’assenza di reale concorrenza”.

Anche se ci sono state alcune richieste di riconteggiare i voti in Ungheria a causa di possibili irregolarità elettorali, nessuno ha ipotizzato la massiccia falsificazione denunciata dagli osservatori indipendenti durante le elezioni in Russia, che parlano di quasi dieci milioni di voti falsi per Putin, pari a quasi al 18 per cento del totale.

E l’alta affluenza in Ungheria non è stata provocata, come in Russia, dalla pressione dei funzionari locali sui dipendenti pubblici. Esiste un’analogia: i partiti d’opposizione in entrambi i paesi non sono riusciti a formare un fronte unico, il che ha reso più facile la loro sconfitta.

Il modello di corruzione ungherese somiglia più alla Russia di oggi che a quella nata dalle ceneri del comunismo

“Se non fossero dei totali idioti, l’opposizione avrebbe potuto battere Orbán”, mi ha detto il manager di fondi d’investimento Viktor Zsiday. “Non c’erano certo dei ceceni pronti a uccidere i politici vicino al parlamento”. Si tratta naturalmente di un riferimento all’omicidio dell’ex viceprimo ministro russo Boris Nemtsov, ucciso nei pressi del Cremlino nel 2015.

La pressione sulle voci critiche è più morbida
Il 12 aprile il settimanale Figyelo ha pubblicato i nomi di più di duecento presunti “mercenari” al soldo dell’arcirivale del presidente ungherese, George Soros. Tra i nomi c’erano quelli di persone Comitato Helsinki per i diritti umani, con sede a Budapest, la sede locale di Transparency international e l’Università dell’Europa centrale, finanziata da Soros. Somigliava alla lista di “traditori” e “russofobi” che ha cominciato a crescere sui siti web di propaganda putiniana e nei social network dopo l’invasione della Crimea. Anche io sono apparso in alcune di quelle liste, e mi sono sentito minacciato.

“Dobbiamo affrontare una crescente pressione psicologica”, mi ha detto il capo del programma per i rifugiati del Comitato Helsinki, Gábor Gyulai.

Ma sia Gyulai sia József Péter Martin di Transparency international e István János Tóth del Corruption research center, mi hanno detto di non sentirsi in pericolo. Le organizzazioni sono tutte in qualche modo beneficiarie dei fondi di Soros, il che equivale a ricevere denaro da Fetullah Gülen nella Turchia di Recep Tayyip Erdoğan o dal governo degli Stati Uniti nella Russia di Putin. In questi paesi un simile legame provocherebbe grossi fastidi con la polizia e con banditi filogovernativi, con una concretissima possibilità di finire in prigione. Non in Ungheria, dove le persone vengono messe in croce sui mezzi d’informazione, ma dove non esiste un reale pericolo di violenza contro loro o i loro familiari.

“La principale differenza con la Russia è che in Ungheria esiste un livello molto più alto di libertà personale”, mi ha spiegato Martin.

I mezzi d’informazione si risvegliano
Figyelo, un tempo una rispettata rivista economica, è una delle tante testate acquistate da fedelissimi di Orbán da quando questi è salito al potere nel 2010. Dal 2016 è di proprietà della storica ufficiale del governo, Mária Schmidt. Negli ultimi anni la maggior parte dei giornali regionali del paese è passata nelle mani di proprietari vicini a Fidesz. Come in Russia, queste testate “tenute d’occhio” da sostenitori del governo, fanno parte di una sfacciata macchina della propaganda che prova un disprezzo analogo a quello del Cremlino per la verità.

Non è un governo controllato dagli oligarchi, ma un governo che controlla tutto il sistema d’affari

Esiste un solo canale televisivo disponibile per tutti gli ungheresi che non sia al servizio del governo (Rtl Klub di proprietà della tedesca Bertelsman). Nel 2015 Andy Vajna, il responsabile dell’industria cinematografica di Orbán, ha comprato Tv2, la seconda emittente del paese. Un ex alleato di Orbán poi diventato suo avversario, Lajos Simicska, dopo la rielezione di Orbán ha annunciato la chiusura del suo giornale e della sua radio, che aveva usato per accusare di corruzione il primo ministro e la sua famiglia. Hir tv, un canale dedicato alle notizie di proprietà di Simicska, continuerà invece ad andare in onda.

In Russia tuttavia, anche un simile livello di pluralismo sarebbe chiaramente impossibile. Una delle prime cose che ha fatto Putin dopo essere salito al potere è stato soffocare Ntv, l’unica emittente televisiva con un grande pubblico che non si sentiva obbligata a seguire la linea del Cremlino. Oggi Putin esercita un controllo totale su tutti i mezzi d’informazione tradizionali di portata nazionale, lasciando all’opposizione e alla stampa indipendente una manciata di siti internet. Si può discutere se abbia senso, dal punto di vista politico, spingersi verso un tipo di controllo così esteso quando è stata raggiunta una tale fetta di consensi. Ma la tentazione rimane per almeno un motivo non politico: il modello economico di Orbán ricompensa i suoi alleati convogliando verso di loro denaro, il che nel mondo dei mass media prende la forma di pubblicità pagate dal governo.

I tribunali sono un argine alla corruzione
Forse la principale somiglianza tra l’Ungheria di Orbán e la Russia è il tipo di corruzione esistente. “Il miglior investimento che si può fare in Ungheria è un buon rapporto con il governo”, mi ha detto Martin.

Quando ho chiesto a György László, capo economista di Szazadveg, il principale centro studi del governo Orbán, perché gli sforzi del governo di aumentare il numero di proprietari ungheresi in settori chiave come l’energia e quello bancario ha portato perlopiù al trasferimento di beni a persone con legami politici, ha replicato con un sorriso: “Altrove è diverso?”. Certamente lo stesso avviene in Russia. Negli anni novanta ho sentito simili risposte dagli ideologi della campagna di privatizzazioni dell’epoca, secondo i quali la prima generazione di capitalisti nazionali sarebbe forse stata composta da affaristi senza scrupoli, ma i loro figli avrebbero formato un’élite postcomunista illuminata. Il modello di corruzione ungherese, tuttavia, somiglia più alla Russia di oggi che a quella nata dalle ceneri del comunismo.

“Non è un governo controllato dagli oligarchi, ma un governo che controlla tutto il sistema d’affari”, mi ha detto Tóth del Corruption research center.

Tóth e il collega Miklós Hajdu hanno analizzato il sistema di appalti pubblici del governo ungherese tra il 2010 e il 2016, scoprendo che le gare a cui hanno partecipato quattro persone vicine a Orbán – ovvero Lőrinc Mészáros, István Garancsi, Simicska (prima della sua rottura con il primo ministro) e il genero di Orbán, István Tiborcz – erano in media meno competitive, e hanno comportato spese più alte per il governo, rispetto a quanto sarebbe successo se non avessero partecipato ai bandi di gara. È esattamente lo stesso schema emerso in Russia, dove gli appalti pubblici hanno contribuito a rendere miliardari un gruppetto di amici di Putin. Un’altra forma di corruzione tipica è quella delle “cattedrali nel deserto”, in Ungheria finanziate perlopiù con il denaro dell’Ue redistribuito dal governo. L’esempio preferito di Tóth è la costruzione di undici torrette d’avvistamento pensate per i turisti e installate in un villaggio sperduto. In Russia, naturalmente, le cattedrali nel deserto sono proporzionalmente più grandi.

Anche su questo aspetto, tuttavia, ci sono importanti differenze tra la Russia e l’Ungheria. Tóth ritiene che tra il 15 e il 24 per cento degli appalti governativi sia corrotto. In Russia, nella prima metà del 2017, il ministero delle finanze ha rilevato che il 42,5 per cento di tutti i contratti d’appalto delle aziende di proprietà statale era stato assegnato in totale assenza di procedure di concorrenza. Secondo Martin, la quota totale di aziende corrotte o controllate dal governo ungherese e dai suoi sodali nell’economia nazionale è compresa tra il 5 e il 10 per cento. In Russia, secondo una stima del 2015 del ministro della giustizia Alexander Konovalov, la corruzione provoca una perdita tra il 10 e il 20 per cento degli introiti pubblici.

La Russia, in altri termini, è più corrotta dell’Ungheria. Uno dei motivi è che, come mi hanno detto tutti gli esperti delle ong con cui ho parlato a Budapest, i tribunali ungheresi sono ancora indipendenti e non temono d’infastidire il governo. Un altro motivo è che la corruzione di basso livello percepita dai cittadini è praticamente inesistente rispetto ai paesi postsovietici. Infine esiste ancora una reale concorrenza elettorale, che mette un argine al malaffare più sfrontato.

Naturalmente intraprendere una svolta verso metodi di governo e meccanismi economici alla Putin rappresenterebbe un grande pericolo, e molti oppositori di Orbán temono che l’Ungheria continui in questa direzione. Martin, tuttavia, dice di non credere che l’Ungheria finirà per diventare una dittatura: lo sforzo di equilibrismo di Orbán tra putinismo e regole europee è consapevole e sapientemente dosato.

Il motivo che mi spinge a convenire con l’analisi di Martin è che Orbán è sopravvissuto a due elezioni regolari dopo essere tornato al potere nel 2010. Non esiste per lui un bisogno irresistibile di seguire esattamente la strada di Putin: le cose gli stanno andando bene così come sono. Ha anche più esperienza di qualsiasi leader europeo, al di fuori della tedesca Angela Merkel, e sicuramente si rende conto che se dovesse esagerare, l’opposizione finirà per ricompattarsi e, con il sostegno dei progressisti europei, creare una più forte alternativa al suo governo. L’abilità di Orbán sta nella capacità di tenere a bada questa minaccia e nell’accumulare al contempo quanto più potere possibile. Laddove Putin sta colpendo da tempo con un’accetta, lui utilizza uno scalpello.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su Bloomberg View.

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