E se Brittany Maynard avesse voluto cantare la struggente e terribile bellezza della vita, tanto amata da non volerne patire la decadenza e la degradazione, una volta accertata l’ineluttabilità della fine? E se questa dolcissima e malinconicissima annunciazione di una morte prossima fosse la sola forma possibile – la sola rimastale – di celebrazione dell’esistenza? Ovvero l’unica forma consentita in quelle condizioni: in presenza, cioè, di una patologia nella fase terminale.

Ecco, io la vedo così. E, infatti, quel ricordare ostinatamente “la felicità delle piccole cose” e “il Dio nascosto” nelle pieghe infinite dell’esperienza umana – nel dolore come nel piacere e nell’angoscia come nella serenità – sembra dirci quanto la vita sia degna di essere vissuta. Ma, soprattutto, sembra suggerire che quella pienezza per essere davvero conosciuta e apprezzata deve misurarsi costantemente e dolorosamente con l’imperfezione del corpo, e la debolezza della mente, con l’insidia della malattia, e con l’imprevisto dell’assenza.

Vale la pena ricordare queste parole di Brittany: “Non c’è una sola cellula del mio corpo che vuole morire, ma è così: sto morendo”. E poi: “Mi sento ancora abbastanza bene perché riesco ancora a gioire, perché rido e scherzo con gli amici e la famiglia, e perciò non sembra ancora il momento giusto. Però so che quel momento arriverà”.

E infine la dichiarazione con cui comunica, qualche giorno fa, di aver rinviato il momento del suicidio perché il suo stato di salute sembrerebbe migliorato. Un errore di valutazione oppure, più probabilmente, un ironico e sapientissimo richiamo alla consapevolezza che, anche quando sembra irreparabilmente destinata a finire, l’avventura umana può riservare sorprese.

Stupire, inventare e ricominciare daccapo. Quest’ultimo annuncio era una divertita dissimulazione, o forse una ulteriore sfida a quel determinismo razionalista che, troppo spesso, fa dell’eutanasia una specie di risultato aritmetico dell’addizionarsi di un certo numero di fattori.

Brittany, al contrario, ha collocato questa scelta estrema e definitiva all’interno di una dimensione, appunto, vitale. Sia perché accompagnata da quell’intensità di relazione e di affetti e di esperienze, sia perché priva di qualunque fatalismo rigido e meccanicistico.

Sceglie di morire, in primo luogo, non perché comunque destinata a quella fine e dunque intenzionata ad accelerarla, ma per ragioni, per così dire, “positive”. Certo, innanzitutto la volontà di sottrarsi a sofferenze lancinanti, ma anche il desiderio di affermare una risorsa umana e una virtù preziosa, che sono assai più di un semplice diritto, ancorché fondamentale. La risorsa e la virtù che accompagnano l’autodeterminazione individuale: ovvero quell’infinita qualità dell’uomo che è la sua incoercibile libertà.

Così facendo, Brittany afferma, per un verso l’unicità e l’irripetibilità dell’identità della persona, che ha la possibilità di decidere su di sé; e per l’altro la forza del legame (con il marito, con i propri cari, con la natura e con le cose) che rende il suicidio una scelta autonoma, ma non dovuta necessariamente alla desolazione della solitudine (e non vissuta nella desolazione della solitudine). In questo modo il dibattito sull’eutanasia e sul suicidio assistito, che lacera le opinioni pubbliche di tutti i paesi sviluppati, assume una fisionomia del tutto diversa.

Le considerazioni giuridiche e quelle morali, le normative e i protocolli medici, i codici e i diritti, rappresentano, tutti insieme, elementi essenziali di una discussione pubblica non più rinviabile: e tuttavia, in questa vicenda, restano sullo sfondo. Perché qui – ed è giusto che così sia – più e prima del diritto e dell’etica conta Brittany Maynard: l’intera elaborazione filosofica occidentale sui temi della vita e della morte diventa corpo e sangue di quella giovane donna; diventa le sue cellule malate e la sua voglia di vita.

Dunque, la sola risposta che conta per Brittany è quella che Brittany trova: vale per lei, e solo per lei. E non perché sia inutile per noi. Al contrario: è preziosa per ognuno, ma a ognuno non può essere negata la fatica e la libertà di una simile scelta.

Luigi Manconi è un sociologo italiano. Ha promosso l’associazione A buon diritto__. È senatore del Partito democratico e presidente della commissione per la tutela dei diritti umani.

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