I cassonetti usati come barricate e incendiati, le transenne divelte, le cariche degli agenti antisommossa, i motorini parcheggiati ai bordi delle strade avvolti dalle fiamme, le vetrine spaccate e i saccheggi dei negozi, da Decathlon a Versace. Le immagini che sono arrivate dalla Spagna nell’ultima settimana hanno ricordato gli incidenti di due anni fa a Barcellona, con la battaglia campale di piazza Urquinaona dopo la sentenza di condanna contro i leader indipendentisti catalani. Di nuovo Barcellona è stata l’epicentro delle proteste che questa volta si sono estese in altre città, non solo in Catalogna. Ci sono stati scontri a Valencia, a Madrid e altrove. Ma, dopo oltre un settimana di scene di guerriglia urbana, la tentazione di focalizzarsi sui roghi per le strade rischia, una volta di più, di limitare l’analisi alla superficie, quando invece quello che sta succedendo in questi giorni è l’espressione di qualcosa di più profondo che non riguarda solo la Spagna.
La miccia delle manifestazioni è stata l’arresto, il 16 febbraio, del rapper Pablo Hasél, condannato a nove mesi di carcere per apologia del terrorismo e offesa alla corona dopo una serie di tweet e un video su YouTube. Una condanna che ha riacceso il dibattito sui limiti della libertà di espressione in un paese dove già in passato altri artisti sono finiti sul banco degli imputati per reati di opinione. Più di duecento esponenti del mondo della cultura, tra cui il regista Pedro Almodóvar, l’attore Javier Bardem e il cantante Joan Manuel Serrat, hanno firmato un manifesto in difesa della libertà di espressione e contro l’arresto di Hasél, con cui, secondo i firmatari, “lo stato spagnolo ricorda paesi come la Turchia e il Marocco”.
Per chi scende in piazza c’è un groviglio di motivazioni che trascendono le rivendicazioni per la libertà di espressione
Il governo spagnolo, di fronte alle pressioni, aveva annunciato pochi giorni prima della detenzione del rapper una riforma del codice penale per evitare che per i reati che hanno a che vedere con la libertà di espressione siano previste pene detentive, modifiche già chieste in passato dalla corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma le promesse non sono bastate a frenare le manifestazioni di protesta convocate subito dopo la diffusione del video del momento in cui gli agenti antisommossa dei mossos de esquadra, la polizia regionale catalana, sono entrati all’interno dell’università di Lleida dove Hasél si era rinchiuso insieme a un gruppo di attivisti. E questo anche perché, se il detonatore è stato il “caso Hasél”, per chi scende in piazza c’è un groviglio di motivazioni che trascendono le rivendicazioni per la libertà di espressione e abbracciano un malessere che, dopo mesi di restrizioni per la pandemia, ha trovato una prima chiara espressione.
Se è vero che è impossibile non considerare il contesto catalano – e non a caso l’arresto di Hasél è stato eseguito all’indomani delle elezioni regionali del 14 febbraio – è anche vero che in strada stavolta di bandiere se ne sono viste poche. “L’indipendenza non servirà a niente se creiamo una repubblica che replica la mancanza di democrazia in cui viviamo”, diceva uno dei manifestanti in un reportage pubblicato da El País. L’unico striscione che è diventato protagonista è stato uno in cui, in spagnolo, c’era scritto: “Ci avete insegnato che essere pacifici è inutile”.
Tenuto conto della “specificità” del caso catalano, quello che resta è una piazza in cui a manifestare sono giovani e giovanissimi, anche minorenni, in un paese che, dopo la grande recessione e anche prima che il covid interrompesse la crescita a buon ritmo del pil, non è riuscito a portare il tasso di disoccupazione giovanile sotto il 30 per cento. Un anno dopo l’inizio della pandemia supera il 40. In strada c’è la rabbia dei giovani studenti e neolaureati che non vedono prospettive e c’è chi, con qualche anno di più, rivive amplificata dall’emergenza covid l’angoscia della crisi cominciata nel 2008. Come ha dichiarato all’agenzia Efe il professore di antropologia sociale dell’università Pompeu Fabra, Carles Feixa, “il caso Hasél è stata la miccia che ha acceso il fuoco, ma il risentimento, le braci, erano già preparate”. Feixa parla del dolore per “un decennio perso”, in cui i nuovi movimenti che avrebbero potuto canalizzare questa indignazione, come quello femminista o quello dei Fridays for future, sono rimasti paralizzati dalla pandemia.
Dieci anni fa, quell’esplosione di malcontento che venne definita con l’etichetta di movimento degli indignados sfociò nella nascita di Podemos, che riuscì a catalizzare la spinta delle grandi manifestazioni pacifiche del maggio del 2011. Adesso Podemos, che ha vissuto non senza lacerazioni la trasformazione da movimento a partito, è passato dall’“assalto al cielo” a essere socio di minoranza del governo di coalizione a guida socialista. E gli equilibrismi dei suoi portavoce, che hanno espresso il loro appoggio alle proteste, non sembrano sufficienti per incarnare la forza politica in grado di agglutinare di nuovo il malcontento. Un malessere che attraversa l’Europa e accumuna la Spagna, la Grecia, la Francia.
Da sempre strumentalizzare le immagini delle barricate e degli scontri è servito a coprire le ragioni della maggioranza che sta dietro alla testa del corteo. La risposta non può essere solo di gestione dell’ordine pubblico. A pochi mesi dal decennale delle proteste degli indignados e dal ventennale del G8 di Genova, che spazzò tra le cariche le richieste di una generazione – la prima a sperimentare sulla propria pelle l’incertezza e il precariato che sono state la condizione esistenziale di quelle venute subito dopo – sarebbe meglio ricordarselo. Con la speranza che aver chiamato i fondi della ripresa “Next Generation EU” non significhi che per vedere un cambio di passo bisognerà aspettare un’altra generazione.
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