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L’Iran si prepara ad aprirsi al mondo

Il leader della coalizione riformista, Mohammad Reza Aref, e sua moglie votano a Teheran, il 26 febbraio 2016. (Vahid Salemi, Ap/Ansa)

Una sonora sconfitta per l’establishment ultraconservatore, e un sostegno al presidente Hassan Rohani e alla sua politica del dialogo. Sembra proprio questo il messaggio uscito dalle urne, in Iran, dove il 26 febbraio gli elettori hanno votato per rinnovare il parlamento nazionale e anche l’assemblea degli esperti, l’organismo che ha il compito di eleggere un nuovo leader supremo.

Così si conferma uno dei paradossi dell’Iran: il voto popolare alla fine conta, nonostante l’intervento preventivo del consiglio dei guardiani (l’organismo che vaglia i candidati alle cariche pubbliche) che aveva escluso buona parte dei candidati riformisti e anche molti moderati, sostenitori di Rohani.

La scelta delle alleanze ha funzionato

Gli ultimi dati, diffusi la sera del 29 febbraio dal ministero dell’interno di Teheran, sono eloquenti. Ancora nessun raggruppamento ha la maggioranza nella nuova legislatura, ma in un parlamento di 290 seggi la Lista della speranza, la coalizione di moderati e riformisti che sostiene il presidente Rohani, se ne è già assicurata 95. Sommati a quelli degli indipendenti e dei conservatori moderati, fanno 113. La principale lista conservatrice mantiene 103 seggi, poco più di un terzo del parlamento.

Ma non è un gruppo monolitico, visto che molti conservatori hanno sostenuto Rohani (per esempio, sul negoziato sul nucleare). Inoltre restano in ballottaggio 69 seggi, per i quali si tornerà al voto tra un mese. Ma l’esito è chiaro: l’asse politico del paese si è spostato verso i sostenitori di aperture democratiche. “Un risultato oltre tutte le aspettative”, mi dice l’economista e commentatore Saeed Leylaz.

La svolta è più evidente nella grande Teheran, il distretto della capitale, dove tutti i 30 seggi sono andati già al primo turno alla Lista della speranza. Mohammad Reza Aref, riformista, è il più votato nella capitale, seguito da due esponenti della “camera del lavoro” radicati nella cintura operaia.

Questo è un primo dato: i riformisti, messi in difficoltà dalla decisione del consiglio dei guardiani che ne ha penalizzato le candidature, hanno deciso di non correre da soli ma di cercare alleanze. In molti distretti hanno anche sostenuto candidati poco noti, giovani o comunque non etichettati (quindi sopravvissuti al vaglio dei Guardiani). E la strategia ha pagato.

Bisogna guardare cosa è successo allo schieramento conservatore. E la lista degli sconfitti è significativa

Sembra inoltre confermata l’elezione di dodici deputate; altre sono in ballottaggio e alla fine potrebbero arrivare a venti: ancora poche, ma nel parlamento uscente erano nove. E questo è il risultato della mobilitazione di un ampio movimento di donne che per mesi ha fatto campagna per “cambiare il volto maschile del parlamento”, come avevano scritto in un manifesto.

In fondo però il dato più importante di queste elezioni non riguarda i riformisti: quelli che hanno potuto candidarsi sono stati eletti. Invece, bisogna guardare cosa è successo allo schieramento conservatore, diviso tra correnti moderate che sostengono il presidente Rohani, e quelle più radicali. A perdere sono proprio queste ultime. E la lista degli sconfitti è significativa. Non entra in parlamento tale Gholam-Ali Haddad-Adel, dirigente di punta della corrente vicina all’ayatollah Ali Khamenei (che è anche suo suocero). Sono fuori i deputati che avevano accusato il ministro degli esteri Javad Zarif di “tradimento” per l’accordo sul nucleare.

Ali Larijani, ex negoziatore nucleare, considerato vicino al leader supremo, è stato rieletto nella città di Qom, ma come indipendente. Infatti nel suo ruolo di presidente del parlamento uscente ha sostenuto attivamente il governo Rohani, perdendo gli appoggi ultraconservatori (ma alla vigilia del voto ha avuto un caloroso sostegno dal generale Soleimani, comandante delle forze speciali delle guardie della rivoluzione, unico militare intervenuto così nella campagna elettorale).

Il voto per l’assemblea degli esperti riserva altre sorprese. Qui il più votato è il presidente Rohani, seguito dall’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Non sono stati rieletti invece il capo uscente dell’assemblea, Mohammad Yazdi, né l’ultraconservatore ayatollah Mohammad-Taghi Mesbah-Yazdi, già ispiratore dell’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Tra gli oltranzisti è stato rieletto Ahmad Jannati (che è anche capo del consiglio dei guardiani), ma con un umiliante sedicesimo posto. L’assemblea degli esperti resta in carica per otto anni: e poiché l’attuale leader, l’ayatollah Ali Khamenei, ha 76 anni e salute incerta, è probabile che la nuova assemblea sia chiamata a gestire una successione che potrebbe anche trasformare l’assetto istituzionale del paese.

L’Iran esce dal regime di sanzioni ma fatica a rimettere in moto l’economia

In definitiva il presidente Rohani è riuscito nella sua strategia di consolidare un blocco di moderati, centristi e riformisti. Certo, questo non scalfisce il peculiare sistema della Repubblica islamica, in cui istituzioni cooptate dal leader supremo (come i guardiani) hanno il veto su quelle elette a suffragio popolare, come il parlamento e il presidente. Ma “gli iraniani ormai sanno che i cambiamenti avverranno in modo graduale, per piccoli passi”, osserva Leylaz: proprio come è successo nel 2013, quando hanno eletto il presidente Rohani senza soccombere al “tanto non cambia nulla”.

“Ora però bisogna mettersi al lavoro”, continua l’economista. E in cima alle priorità c’è la ripresa economica: “La situazione è molto difficile, gli iraniani hanno perso il 20 per cento del loro reddito rispetto a dieci anni fa. Lo scontento è palpabile”.

L’Iran esce dal regime di sanzioni ma fatica a rimettere in moto l’economia, indispensabile per dare un futuro a un paese giovane e con grandi aspettative. Il governo ha appena varato un piano pluriennale di interventi per rilanciare gli investimenti produttivi. Soprattutto, dice Leylaz, deve “mettere un freno alla corruzione che ha pervaso il sistema nell’ultimo decennio, varare misure per attirare nuovi investimenti privati e stranieri, e aumentare la produttività del sistema economico”. La buona notizia, dice, “è che ora abbiamo un parlamento che lavorerà per queste riforme, invece di ostacolarle”.

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