Il caso del miliardario condannato a morte in Iran
La sentenza è clamorosa. Un tribunale di Teheran il 6 marzo ha condannato a morte Babak Zanjani, uno dei più ricchi imprenditori iraniani, e con lui altre due persone di cui non è stata rivelata l’identità. Sotto processo per truffa, appropriazione indebita e riciclaggio di denaro, Zanjani e gli altri due imputati sono stati riconosciuti colpevoli di “diffondere la corruzione nella società”, delitto che prevede la pena capitale. L’accusa gli contesta in particolare di aver sottratto più di 2,7 miliardi di dollari alle casse dell’azienda petrolifera statale, la National iranian oil company (Nioc).
Si tratta di una sentenza di primo grado contro la quale gli imputati possono fare ricorso. Gholam-Hossein Mohseni Ejehii, portavoce del ministero della giustizia, ha inoltre precisato che lo stesso verdetto condanna i tre imputati a pagare una multa pari a un quarto della somma sottratta allo stato.
Il caso fa scalpore perché Babak Zanjani è uno dei più noti mediatori d’affari in Iran, perché ha accumulato una fortuna dal nulla e perché era molto vicino all’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. In effetti, era stato quel presidente a chiedergli di piazzare, attraverso le sue aziende, grandi quantitativi di petrolio sul mercato estero, in modo da aggirare le sanzioni internazionali. Insomma: un esempio di quell’economia grigia che ha potuto prosperare proprio grazie alle sanzioni internazionali.
Zanjani usava le sue imprese all’estero per aiutare Teheran ad aggirare l’embargo sul petrolio
Il nome di Babak Zanjani ha cominciato a fare notizia in Iran nel settembre 2013, quando il parlamento nazionale ha aperto un’indagine sui suoi affari. I deputati volevano rintracciare una somma di 1,9 miliardi di dollari che secondo loro Zanjani aveva trattenuto dopo aver fatto da intermediario nella vendita del petrolio. Per rispondere alle accuse, ha concesso un’intervista al settimanale Aseman (ora chiuso) in cui spiegava che il denaro era bloccato all’estero a causa delle sanzioni internazionali e che lo avrebbe versato appena possibile.
“Ho sempre lavorato per il paese”, dichiarava in quell’intervista, ampiamente citata dai mezzi d’informazione internazionali. Si è definito anzi un “basij dell’economia”, riferendosi ai miliziani rivoluzionari: il corpo paramilitare dei basij è una delle forze più oltranziste del sistema ed è stato un pilastro del consenso all’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad.
In effetti, durante la passata amministrazione, e soprattutto dal 2010, Zanjani aveva assunto un ruolo sempre più rilevante come mediatore d’affari per conto dello stato, usando la sua rete di imprese all’estero per aiutare Teheran ad aggirare l’embargo. Era il culmine di una storia costruita all’ombra del potere.
La sua attività imprenditoriale si è sviluppata in parallelo a intensi rapporti d’affari con il potere
Babak Zanjani, 43 anni, ha sempre amato paragonarsi a Bill Gates, anche se ricorda piuttosto certi oligarchi dell’ex Unione Sovietica. Nato nel 1974 a Teheran in una famiglia di origini popolari, ha prestato servizio militare per due anni nelle guardie della rivoluzione, dov’era riuscito a farsi assegnare al quartier generale. Quella era stata la svolta: nel 1999 era stato scelto come autista del governatore della banca centrale, Mohsen Nourbakhsh.
Doveva aver conquistato la fiducia del suo capo, tanto che per sei mesi la banca gli aveva affidato ogni giorno qualcosa come 20 milioni di dollari da vendere ai cambiavalute nel mercato nero, con guadagni quotidiani di circa 17mila dollari. Nel 1996 aveva già accumulato un patrimonio di 2,6 milioni di dollari. Poi ha cominciato a esportare in Turchia pelli di pecora, importando merci come shampoo, birra analcolica, caffè e olio d’oliva. Gli affari erano cresciuti in fretta: “Dio mi ha sempre aiutato”, dice lui.
In pochi anni Zanjani ha fondato un’agenzia di credito con sede negli Emirati Arabi Uniti e una banca in Georgia; è diventato proprietario di una compagnia aerea (la Qeshm Airlines) e di una squadra di calcio di Teheran (la Rah Ahan). La sua conglomerata, Sorinet, con sede a Dubai, include oltre 60 aziende che spaziano dai cosmetici ai materiali da costruzione, alla finanza, alle infrastrutture, all’immobiliare, alle tecnologie dell’informazione. Fa affari in Iran ma anche negli Emirati Arabi Uniti, in Turchia, in Cina, in Malesia, in Tagikistan. Nella primavera del 2013 il canale in persiano della Bbc l’ha intervistato nella capitale tagika Dushanbé, dove stava inaugurando un nuovo hub di trasporti. Infine ha comprato una partecipazione nella First islamic bank, che ha sede in Malesia.
Questa sfrenata attività imprenditoriale si è sviluppata in parallelo a intensi rapporti d’affari con il potere. Zanjani ha fornito credito alla Khatam al Anbiya, un’azienda di impiantistica e costruzioni che appartiene alle guardie della rivoluzione, e l’ha aiutata a muovere il denaro bloccato dall’embargo internazionale.
Vendeva petrolio all’estero poi girava liquidità a Teheran: si favoleggia che la sua commissione arrivasse all’1 per cento
Così, quando dal 2010 le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione europea hanno cominciato a colpire il petrolio e le banche dell’Iran, il governo di Ahmadinejad ha chiesto aiuto proprio a lui. “La banca centrale stava finendo le riserve di valuta”, ha dichiarato Zanjani alla rivista Aseman. E lui ha aiutato la banca volentieri: usando la sua rete di aziende a Dubai, in Turchia e in Malesia per vendere 24milioni di barili di petrolio, ha ricavato 17,5 miliardi di dollari per il ministero del petrolio e per le guardie della rivoluzione.
“Un servizio alla nazione”, ha detto Zanjani. Secondo l’Unione europea Zanjani nascondeva l’origine del petrolio facendo trasferire il greggio da una petroliera all’altra, più volte, spesso nel piccolo porto di Labuan in Malesia, per venderlo sul mercato aperto a clienti in India, a Singapore e in Malesia; poi “lavava” il denaro attraverso la First islamic bank malese.
L’imprenditore sostiene che non vi fosse nulla di illecito: quei paesi asiatici erano esentati dall’embargo petrolifero contro l’Iran dichiarato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Certo non ha fatto tutto questo per nulla: mentre lui dice che la sua commissione era appena dello 0,007 per cento, in Iran si favoleggia che arrivasse all’1 per cento.
Molti deputati hanno cominciato a parlare di una mafia di corrotti che si è arricchita sulle sanzioni
Gli affari di Babak Zanjani hanno subìto un primo colpo nel dicembre del 2012, quando l’Unione europea l’ha incluso nella lista nera per il suo “ruolo chiave nel facilitare contratti petroliferi e trasferimenti di denaro”, mettendo sotto embargo sia lui sia la First islamic bank. Nell’aprile del 2013 il ministero del tesoro degli Stati Uniti ha congelato i suoi conti bancari.
Ma il vero colpo per l’uomo d’affari è stato il cambio d’amministrazione a Teheran: con l’uscita di scena di Ahmadinejad e l’insediamento del presidente Hassan Rohani, il “Bill Gates iraniano” ha perso il canale privilegiato con il potere che era all’origine della sua fortuna.
Allora sono cominciate le indagini. Il nuovo ministro del petrolio ha sostenuto che Zanjani doveva più di due miliardi di dollari allo stato (da allora ha versato 700 milioni). Una commissione parlamentare ha indagato sul perché lo stato mettesse a disposizione di un individuo somme e risorse così ingenti senza nessuna forma di controllo. Parecchi deputati hanno cominciato a parlare di una “mafia” di corrotti che si è arricchita sulle sanzioni.
Nel dicembre 2013, su incarico del presidente Rohani, una commissione ad hoc contro la “corruzione finanziaria” ha accusato Zanjani di essersi arricchito illecitamente approfittando delle sanzioni economiche. Il giorno dopo Babak Zanjani è finito in carcere. Ma istruire il processo non è stato semplice, tanto che molti hanno pensato a trattative dietro le quinte: amnistia in cambio della restituzione dei soldi. Già, perché la fortuna sottratta dal piccolo oligarca non è mai riapparsa.