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Il referendum sulle trivelle

Non ha ottenuto il quorum la consultazione popolare del 17 aprile sull’estrazione di gas e petrolio in mare. I promotori chiedevano di votare sì per non rinnovare le concessioni alle piattaforme che si trovano a meno di 12 miglia nautiche dalla costa.

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Dopo il referendum sulle trivelle resta la domanda sulla politica energetica

Una piattaforma per l’estrazione di gas nel mare Adriatico, vicino a Ravenna, il 5 aprile 2015. (Alberto Pizzoli, Afp)

La scommessa è persa, il referendum sulle trivelle non ha ottenuto la partecipazione del 50 per cento più uno degli elettori. Solo il 31 per cento domenica è andato alle urne, e la consultazione non è valida. Sarà che la domanda posta agli elettori suonava troppo tecnica, difficile da spiegare: se prolungare la durata delle concessioni per estrarre idrocarburi off shore, entro 12 miglia dalle coste italiane, fino a fine vita del giacimento. Sarà anche che la campagna elettorale è stata molto breve e che le tv l’hanno pressoché ignorata. E che il governo aveva chiaramente scommesso sull’astensione, come detto in modo esplicito dal presidente del consiglio e perfino da un ex presidente della repubblica: l’appello a non votare da parte delle alte cariche dello stato è un segno di imbarbarimento della politica.

Raggiungere il quorum, in queste condizioni, sarebbe stato un miracolo. Dunque il referendum è sconfitto: ma con onore. Perché un terzo degli elettori ha risposto, nonostante tutto, ha voluto pronunciarsi sul futuro della politica energetica del paese. Ha mandato un segnale. Un governo serio dovrebbe tenerne conto.

Al di là del quesito tecnico, l’intenzione del referendum era chiara: fermare la corsa a estrarre idrocarburi vicino alle coste italiane e innescare un dibattito sulle alternative energetiche. Il referendum rimanda a questioni di fondo: la politica energetica futura del paese, gli impegni assunti dall’Italia per limitare le emissioni di gas di serra che alterano il clima, la sua politica industriale. Se puntare sui pochi giacimenti di gas e di petrolio italiani, o imboccare con più convinzione la strada delle energie rinnovabili.

L’Italia, insieme alla Spagna, ha già la quota più alta d’Europa di energia rinnovabile nella sua produzione di elettricità

Tra pochi giorni, il 22 aprile, a New York si cominciano a raccogliere le adesioni formali all’accordo mondiale sul clima, quello definito lo scorso dicembre a Parigi. Con quell’accordo l’Italia, insieme a 195 paesi, si è impegnata ad avviare una transizione energetica: si tratta di abbandonare nell’arco di trent’anni i combustibili fossili, che generano emissioni di gas serra, e investire in energie rinnovabili. Cambiare le fonti di energia ma anche il modo di usarle, investire in efficienza e risparmio. È una prospettiva di innovazione tecnologica e lavoro. E le alternative ci sono.

Paradossalmente, mentre il nostro governo punta sugli idrocarburi, il paese va in un’altra direzione. L’Italia per esempio, insieme alla Spagna, ha già la quota di energia rinnovabile più alta d’Europa nella produzione di elettricità. Se nell’ultimo decennio la nostra dipendenza dall’importazione di idrocarburi è diminuita si deve a questo, non al gas estratto nei mari italiani.

Trent’anni non sono poi molti per questo tipo di investimenti: ha senso battersi per mantenere in vita a oltranza alcune decine di piattaforme italiane, vecchie e per di più poco produttive invece di spingere da subito sulle alternative?

Si potrà discutere se un referendum sia lo strumento migliore per dibattere pubblicamente le scelte di politica energetica – probabilmente i promotori lo stanno già facendo. Ma hanno posto un problema di fondo, e questo resta: che energia vogliamo nel futuro prossimo.

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