Le lavoratrici sfidano i grandi marchi della moda a Ginevra
C’è voluta una tragedia come il Rana Plaza per arrivare alla conferenza che si conclude oggi a Ginevra.
Il Rana Plaza è l’edificio di otto piani crollato il 24 aprile del 2013 alla periferia di Dakha, in Bangladesh. Era sede di numerose aziende di abbigliamento e nel crollo ha ucciso quasi 1.200 lavoratori, per lo più donne. Ha lasciato oltre 300 dispersi e ha mostrato al mondo intero le condizioni del lavoro nelle fabbriche di abbigliamento sparse in molti paesi asiatici: lavoro pagato pochissimo, norme di sicurezza non rispettate, imprenditori di pochi scrupoli.
La tragedia di Dakha ha anche acceso i riflettori sulle responsabilità delle marche internazionali d’abbigliamento, che fanno cucire i propri abiti proprio in fabbriche come il Rana Plaza, ed è questo che ora ci porta a Ginevra. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), organismo delle Nazioni Unite, ha riunito una “conferenza tripartita” in cui sono rappresentati i governi, le imprese e le organizzazioni dei lavoratori. La novità è che per la prima volta all’ordine del giorno c’è la tutela dei lavoratori della global supply chain, la “catena globale di rifornimento”.
Le imprese occidentali in Asia
Per capire cosa sia, torniamo un momento a Dakha. Tra le macerie del Rana Plaza sono state trovate etichette molto note, da H&M a Benetton, in tutto 26 marche europee e americane. Nell’edificio però c’erano solo aziende locali. L’industria dell’abbigliamento funziona così: le aziende proprietarie dei marchi (di solito di paesi industrializzati) non producono nulla. Gli abiti e gli accessori che vendono sono commissionati a fabbricanti sparsi tra il subcontinente indiano, la Cambogia o l’Indonesia (una decina di paesi asiatici sforna il 60 per cento dell’abbigliamento mondiale). Formalmente è solo una relazione commerciale, le note marche sono il “compratore”, e gli imprenditori che producono gli abiti sono il “fornitore”. L’impresa occidentale di solito piazza le sue ordinazioni a diversi fornitori in diversi paesi. Gli abiti saranno cuciti in fabbriche con migliaia di lavoratori, oppure il lavoro sarà appaltato e subappaltato ad aziende più piccole. In mezzo ci sono degli intermediari. Così, tra il vestito venduto in Europa e chi lo ha cucito ci sono numerosi passaggi. Questo significa che le marche occidentali non sono legalmente responsabili verso le operaie che producono i loro abiti, per il semplice motivo che non sono loro dipendenti.
In Cambogia le lavoratrici parlano di maltrattamenti e molestie sessuali, e gli straordinari sono la regola
Di questo tratta la conferenza che si sta concludendo a Ginevra: stabilire un quadro di norme e responsabilità per tutte le imprese coinvolte in questa industria globale, incluse le marche occidentali. Per l’occasione, nella sede dell’Organizzazione internazionale del lavoro sono arrivate anche delegazioni di donne e uomini che lavorano con la macchina da cucire.
Nei giorni scorsi la Asia floor wage alliance (Afwa), rete di sindacati asiatici e organizzazioni internazionali per i diritti umani e la tutela del lavoro, ha pubblicato una serie di rapporti sulle condizioni di lavoro nella “catena di approvvigionamento” di tre note marche occidentali. Parlano di violazioni sistematiche degli standard minimi di protezione del lavoro. Prendiamo Walmart, l’azienda dell’Arkansas, negli Stati Uniti, che ha costruito un impero vendendo prodotti super economici, tra cui anche magliette e biancheria da casa. I ricercatori hanno intervistato 340 operai che producono per i fornitori di Walmart in Bangladesh, India e Cambogia. In India hanno trovato aziende che prendono operai con contratti a termine o addirittura a giornata, pagati secondo il numero di pezzi cuciti. Così l’azienda prende più o meno lavoratori secondo le ordinazioni ricevute, per mantenere i prezzi bassi: perché anche i fabbricanti sono sottoposti a una concorrenza spietata, e vince le commesse chi offre il prodotto ai prezzi più convenienti.
In tutti i paesi citati i lavoratori parlano di maltrattamenti, pause negate perfino per andare alla toilette, o di molestie sessuali. Gli straordinari sono la regola; in Cambogia le lavoratrici si sobbarcano giornate tra 10 e 14 ore di lavoro, soprattutto nei picchi della produzione, ma quelle ore sono conteggiate per difetto e sottopagate. Protestare, pretendere la giusta paga, iscriversi a un sindacato può costare licenziamenti, intimidazioni, a volte minacce più pesanti.
La ricerca cita malattie croniche, dalla silicosi (provocata dalla sabbia “sparata” sui jeans per scolorirli, tecnica chiamata sandblasting) alla tubercolosi, dolori alla schiena, disturbi riproduttivi. In India, un’indagine governativa citata nel rapporto mostra che l’80 per cento di tutti i casi di tubercolosi registrati nel 2009 sono di lavoratori dell’abbigliamento. Racconti analoghi emergono dalle ricerche sui fornitori di Gap, o quelli di H&M.
“Stiamo parlando di imprese che si fanno scudo del meccanismo dei fornitori per scaricare i costi e le responsabilità”, dice Anannya Bhattacharjee, coordinatrice internazionale dell’Afwa. Già: Walmart, H&M e gli altri non sono direttamente responsabili dei salari pagati dai loro fornitori, o delle condizioni di lavoro, o delle misure di sicurezza degli edifici.
Il diritto di formare i sindacati
Certo, quando succede una tragedia come al Rana Plaza, anche i “compratori” sono chiamati in causa. Non è una bella pubblicità avere il proprio marchio affiancato a immagini di disperazione e di morte, e infatti molte delle aziende coinvolte si sono impegnate a contribuire a un fondo per risarcire i sopravvissuti (il fondo ha raccolto 16 milioni di dollari, meno dei 20 milioni promessi, ma il peggio è che solo il 15 per cento di quel denaro è stato distribuito). Tanto più che gli incidenti non sono rari. Pochi mesi prima del Rana Plaza, sempre a Dakha l’incendio di una fabbrica aveva ucciso 112 operaie (risultò che i cancelli erano chiusi perché le lavoratrici non si assentassero). L’anno prima 250 operai erano morti nell’incendio di uno stabilimento nella periferia di Karachi, Pakistan: anche là i cancelli erano chiusi. Si chiamava Ali Enterprises, produceva jeans per la Kik, marca tedesca. Alcuni rappresentanti dei lavoratori di Karachi erano qui a Ginevra: spiegavano che la battaglia per i risarcimenti è ancora aperta. Con l’aiuto dei sindacati, i familiari delle vittime si sono rivolti alla giustizia in Germania, ma sarà un procedimento lungo: “Abbiamo bisogno di un meccanismo legale che stabilisca la responsabilità delle aziende per cui lavoriamo, nei loro stessi paesi”, diceva Nasir Mansoor, dirigente della National trade unions federation pachistana, durante uno dei seminari collaterali alla conferenza dell’Oil.
Dopo il crollo del Rana Plaza, la svedese H&M ha promosso un Accordo su incendi e sicurezza degli edifici in Bangladesh, a cui hanno aderito molte altre imprese che così hanno preso impegni anche legali per garantire la sicurezza dei posti di lavoro. Oggi però le stesse imprese ammettono che i progressi sono lenti e molte delle misure correttive non sono ancora state realizzate. Altre aziende, tra cui Gap e Walmart, hanno costituito un altro gruppo, Alliance for Bangladesh worker safety: anche loro oggi parlano di progressi lenti. Insomma: passata l’emozione, nelle fabbriche di abbigliamento sparse in Asia non molto è cambiato.
Le delegazioni di lavoratrici, sindacalisti e organizzazioni per i diritti umani rappresentate qui Ginevra hanno un obiettivo: spingere l’Oil a elaborare una nuova convenzione sul lavoro nella global supply chain. In fondo, dicono, è un’industria che fa grandi profitti grazie a una catena di lavoro che si estende oltre le frontiere. “I lavoratori della global supply chain sono lo scalino più basso tra i lavoratori industriali, con salari sotto la soglia di povertà”, osserva Ashim Roy, dirigente della New trade union initiative, sindacato indipendente in India. “Se vogliamo ristabilire condizioni di lavoro decenti bisogna in primo luogo stabilire il diritto a un salario che permetta di vivere, il diritto di formare sindacati”.