Il filo rosso che lega l’alluvione di Firenze ai terremoti di oggi
La storia delle catastrofi italiane è così ripetitiva che proporre riferimenti e paragoni con il passato rischia di suonare vacuo o patetico. Ma c’è proprio in questi giorni una coincidenza temporale che qualche utilità o anche solo qualche suggestione significativa la può offrire. Mentre assistiamo attoniti e spaventati alle oscillazioni dello sciame sismico nell’Italia centrale ricorrono esattamente 50 anni dall’alluvione di Firenze, ossia dall’evento che ha fondato la moderna sensibilità per le catastrofi cosiddette naturali.
Per sintetizzare quello che accadde nel 1966 a chi non c’era o non ricorda, giorni e giorni di piogge smisurate culminarono fra il 3 e il 4 novembre nello straripamento dell’Arno, l’esondazione di fogne e cisterne, l’invasione delle acque nelle strade e nelle piazze di Firenze, le tonnellate di fango contro i ponti e i palazzi, il danneggiamento o la distruzione di capolavori dell’arte pittorica e libraria, qualche decina di morti (il calcolo è stato per un certo tempo incerto). Tutto accaduto decine di altre volte, almeno da quel 1333 (il 4 novembre, anche allora) raccontato nella Cronica di Giovanni Villani, ma invece assolutamente inedito per la percezione e le reazioni che scatenò.
Per molti aspetti la distanza dall’oggi può sembrare enorme. A cominciare da un dato essenziale: non c’erano notizie. Non c’era nulla che potesse animare un circo mediatico affollato e tempestivo come quello cui siamo abituati (da quando? Forse dall’epica catastrofe individuale che ebbe luogo a Vermicino nel 1981). Non c’erano reti: un solo canale televisivo molto “nazionale”, niente radio locali (se non quelle ammirevoli dei radioamatori), i giornali appesantiti dal piombo, le linee telefoniche fragili e sottoutilizzate.
A Firenze comincia la spettacolarizzazione delle catastrofi
Mancava anche qualcosa di più impalpabile e decisivo, una sensibilità particolare, un senso di attenzione e di condivisione: quando le notizie da Firenze cominciarono a uscire finirono relegate in fondo alla scaletta dei notiziari e solo a fatica, con il passare delle ore (praticamente quando le acque cominciavano già a defluire) conquistarono la parte alta delle prime pagine. Non basta l’arretratezza delle tecniche di comunicazione a spiegare questa apparente distrazione e naturalmente non si tratta di un caso di cinismo collettivo. Semplicemente, non eravamo abituati in tempo di pace a convivere con un senso collettivo di allarme e di partecipazione al lutto.
Ecco la prima cosa che comincia a Firenze nel 1966 e arriva fino ai nostri giorni: il riconoscere l’evento disastroso come qualcosa di comune. Che certamente contraddice la narrazione di un paese diventato da allora più indifferente e disumano. Ma solo in parte: perché a Firenze comincia anche la spettacolarizzazione delle catastrofi, è per la prima volta messa in campo – con i mezzi limitati che si è detto – una macchina dell’informazione che oggi, a pieno regime, genera quello cui stiamo assistendo, si tratti di eventi di cronaca, di costume, sportivi, perfino – a volte – politici.
Qualcosa per cui i fatti non sono forse, come con qualche ragione si teme, rimossi ma più banalmente sopraffatti dalla enorme quantità di emozioni, di racconti, di voci, di opinioni messe ogni volta in campo (a Firenze si afferma nitidamente un meccanismo narrativo tipico di ogni spettacolarizzazione, quello che mira ad affermare subito l’unicità dell’evento, trasformando la sua complessità in qualcosa di semplice e la sua materialità in qualcosa di simbolico: l’alluvione di Firenze cancella le altre città inondate, come lamentano ancora i veneziani con la loro aquagranda, il Cristo di Cimabue diventa subito il più prezioso e irrinunciabile dei capolavori minacciati fino a farci perdere la memoria di quanti davvero lo furono).
A Firenze compare così un cosmpolitismo non più individuale ma già anonimo e globalizzato
Altre realtà, protagoniste assolute degli scenari catastrofici contemporanei, non c’erano nel 1966 ma proprio allora cominciarono a muovere i primi passi: le istituzioni di protezione pubblica, che oggi chiamiamo “civile”, e il volontariato. Ma ancora prima va citata la rivelazione della inedita dimensione globale che poteva avere il sentimento di minaccia a una città così universalmente conosciuta. Quando, tanto rapidamente da anticipare quasi i nostri organi di informazione, la Bbc lancia l’allarme fatale (“Il mondo sta per perdere Firenze, una delle sue gemme”), quando Ted Kennedy approfitta di una conferenza sui rifugiati in corso a Ginevra per saltare su un aereo e andare a vedere cosa mai stesse accadendo a Firenze, viene sancito qualcosa che era avvenuto proprio in quegli anni.
Se non ancora il mondo con le sue infrastrutture socioeconomiche, si era globalizzato il suo immaginario. Era una globalizzazione limitata a minoranze sociali (le élite politico-culturali dell’occidente) e generazionali (i ragazzi del rock post-Beatles), eppure una novità assoluta si materializza per la prima volta nella Biblioteca Nazionale visitata da Ted Kennedy: “C’era un freddo terribile e vidi gli studenti nell’acqua fino alla cintura. Avevano formato una fila per passarsi i libri, in modo da recuperarli dall’acqua. In ogni punto della grande sala c’erano centinaia di giovani che si erano riuniti per aiutare”.
Compare così un cosmpolitismo non più individuale ma già “anonimo” e globalizzato. E compare per la prima volta “la meglio gioventù”, secondo una formula logora quanto meritata. Il riconoscimento che lì stesse accadendo qualcosa di nobile e inatteso, di inedito e largamente spontaneo, rompe il fronte della pubblicistica sempre sospettosa verso i giovani e i loro comportamenti. È ironico che a inventare probabilmente la più celebre e celestiale immagine di quei ragazzi sia stato lo stesso giornale, il Corriere della Sera, che in quegli anni conduceva una battaglia feroce e meschina contro gli accampamenti beat a Milano e i bivacchi dei capelloni a piazza di Spagna. Scrive lo scrittore e giornalista Giovanni Grazzini il 16 novembre: “D’ora in avanti, che nessuno si permetta più di insultarli: sono stati degli angeli, gli angeli del fango”.
Di fronte al terremoto di oggi sappiamo che possiamo fare pochissimo e non ci muoviamo
Naturalmente c’è molta retorica in questa fortunata immagine: non era angelica quella generazione, non sarà paradisiaco il cammino che percorrerà, a zig zag tra le bombe delle stragi di stato e il suicidio collettivo degli anni di piombo. Ma intanto si era, come dire, costituita; si era riconosciuta. E insieme lì – proprio dove nel tredicesimo secolo erano sorte le prime confraternite della Misericordia – nasce il volontariato contemporaneo. Quello che mette qualcosa che si ha in più – il tempo, le competenze, la buona volontà – a disposizione degli altri. Da Firenze 1966 in poi, quegli “altri” non siamo proprio “noi” ma nemmeno qualcosa di tanto diverso: la solidarietà registra l’accorciarsi delle differenze e aspira al ridursi delle disuguaglianze.
Ora che la forbice ha ricominciato ad allargarsi, quella forma di volontariato sembra aver compiuto per intero la sua parabola. Se un episodio di volontariato premoderno come quello del Polesine nel 1951 si è espresso nell’accoglienza degli sfollati e quello nato a Firenze nel 1966 si è alimentato delle varie forme di mobilità, di fronte al terremoto di questi giorni sappiamo che possiamo fare pochissimo e non ci muoviamo per niente. Anche perché si muove subito “la macchina dei soccorsi”, vasta, strutturata, spesso (ed è una fortuna) funzionale. Cosa ci resta da fare? Informarci ossessivamente, in tempo reale. E al massimo donare due euro. Con gli smartphone, naturalmente.
Se nemmeno la minima precauzione è adottata nelle più assodate zone sismiche, c’è un fallimento da registrare
C’è infine il nodo davvero decisivo della nostra cultura ambientale. Tra il disastro del Vajont del 1963 e l’alluvione di Firenze tre anni dopo diventa evidente quello che la modernizzazione, nella sua versione di sfruttamento industriale diffuso, stava arrecando al nostro territorio. L’Arno, il protagonista della catastrofe toscana, non era solo il torrentaccio indomabile per tutto il corso della sua storia ma un elemento, ha scritto Erasmo D’Angelis, “al pieno servizio del boom economico del paese”. Le catastrofi “naturali” degli anni Sessanta sono l’altra faccia o meglio l’altra verità dell’epoca impetuosa del “miracolo italiano”. Davanti alle quali nasce (anche qui in forme prima elitarie e poi via via più popolari) il nostro glorioso e gracile ambientalismo.
Come manifestazione di preoccupazione ma soprattutto di cura per un territorio del quale si cominciava a percepire la fragilità proprio mentre, con l’educazione culturale e la partecipazione politica, se ne riconosceva la natura di bene comune. Che ne è, di quei valori, a cinquant’anni di distanza? Le pietre di Amatrice sembrano averli travolti. Se nemmeno la minima precauzione viene adottata nelle più assodate zone sismiche, c’è un fallimento da registrare (proprio mentre nelle zone dove si è ricostruito con un minimo di criterio almeno i morti non ci sono; e c’è dunque la prova che non solo il destino porta la morte).
L’emozione di Firenze – la faglia che si è aperta nella nostra sensibilità collettiva nel 1966 – questo ha generato: una opinione pubblica coinvolta e solidale ma che appare sollecita solo quando è eccitabile (dal nucleare agli ogm) mentre è immobile (e irresponsabile) quando si tratta di investire per prevenire. Una contraddizione drammatica per il deficit politico e culturale che rivela e per gli effetti tragici che comporta. Riconoscerla nelle sue origini può aiutare a capire come combatterla, se si è ancora in tempo.