Un altro mistero argentino
La storia comincia nel settembre del 2004, quando il presidente dell’Argentina Néstor Kirchner incarica il magistrato Alberto Nisman di guidare le indagini sui responsabili dell’attentato contro la sede dell’Asociación mutual israelita Argentina (Amia) a Buenos Aires, che il 18 luglio 1994 aveva provocato 85 morti e centinaia di feriti. Nel 2004 ci sono ancora solo delle ipotesi e neanche un colpevole accertato. Per anni il procuratore Nisman lavora senza arrivare a delle conclusioni definitive. È convinto, però, che il governo iraniano abbia a che fare con l’attentato a Buenos Aires. Per questo nel 2013, quando il governo argentino firma un protocollo d’intesa con Teheran per “collaborare” all’inchiesta (il principale sospetto diventava collaboratore), Nisman si sente tradito.
Il 14 gennaio 2015 il procuratore annuncia di avere scoperto, grazie ad alcune intercettazioni telefoniche e ad altri rapporti, un piano della presidente Cristina Fernández (moglie di Néstor Kirchner, morto nel 2010), del ministro degli esteri Héctor Timerman e di altre personalità per insabbiare le responsabilità iraniane nei fatti del 1994: il protocollo d’intesa sarebbe stato solo un modo per garantire l’impunità di Teheran in cambio di favori economici.
In un paese meno anestetizzato dell’Argentina, scoprire che il governo è accusato di aver protetto i responsabili del peggiore attentato della storia nazionale avrebbe scatenato una crisi profonda. Invece in Argentina ci sono state battute e insulti, tweet e grida. Alcuni ministri hanno dichiarato che il procuratore era pazzo e vari deputati l’hanno invitato a esporre le sue prove al parlamento. Nisman avrebbe dovuto parlare alle camere il pomeriggio del 19 gennaio. Qualche ora prima, all’alba, il magistrato, 51 anni, divorziato e con due figlie, è stato trovato morto, ucciso da un colpo di arma da fuoco nel bagno della sua abitazione.
Ci sono mattine in cui sembra che la caduta dell’Argentina non finirà mai. Non si sa cosa sia successo. La versione ufficiale parla di suicidio, ma nel dare la notizia alla stampa il segretario alla sicurezza argentino ha usato il termine “vittima”. È difficile immaginare che una persona, che da dieci anni lavora alla stessa inchiesta, si uccida poche ore prima del momento in cui finalmente potrà rendere pubblico il frutto dei suoi sforzi. Portavoci non ufficiali del governo sostengono che Nisman si sia tolto la vita per la vergogna, perché le sue bugie sarebbero state svelate.
La presidente Cristina Fernández si è affrettata a sostenere l’ipotesi del suicidio (anche se in seguito ha dichiarato il contrario) e, in una lettera diffusa sulla sua pagina Facebook, ha snocciolato una lunga lista di cospirazioni: le accuse del magistrato contro di lei sarebbero un complotto organizzato dalla stampa e – in modo quasi delirante – avrebbero dei legami con l’attentato del 7 gennaio alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi.
Pochi argentini credono alla versione del suicidio. Nel migliore dei casi, parlano di “suicidio indotto” per ragioni politiche. Il dubbio si è insinuato nella società ed è difficile dissiparlo. Le congetture sulla morte di Nisman sono molte: l’avrebbe ucciso un commando iraniano, un settore impazzito del governo, un’unità dei servizi dell’intelligence (i cui vertici sono stati licenziati qualche settimana fa) per infangare la reputazione del governo.
Visti i costumi argentini, è probabile che non sapremo mai cos’è successo nel bagno della casa di Nisman. O peggio: se la polizia dichiarerà che si è trattato di un suicidio, milioni di argentini non crederanno a quella versione e immagineranno che il loro governo abbia qualcosa da nascondere e, in modo più o meno diretto, sia complice. È un dato brutale: non è possibile governare un paese in queste condizioni. La verità è che non è neanche possibile vivere in un paese in queste condizioni. La morte del procuratore Alberto Nisman sembra uno di quegli eventi che riscrivono la storia e, molti anni dopo, si citano come il momento in cui tutto è cambiato. Ma è anche vero che l’Argentina, di momenti come questo, ne produce un po’ troppi.
(Traduzione di Francesca Rossetti)