Le conseguenze del condividere tutto sui social network
Qualche anno fa il sociologo Nathan Jurgenson raccontava come cambia l’occhio delle persone nell’epoca della condivisione digitale. I nostri occhi restano gli stessi, spiegava, ma lo sguardo è ormai del tutto differente. Ciò che vediamo, camminando per strada o durante un viaggio in auto o in treno, non è più semplice materiale per il ricordo, ma viene valutato in funzione della sua possibilità di essere condiviso. Fermiamo l’auto al bordo della strada non per osservare un tramonto straordinario ma per condividere un tramonto straordinario.
Nel giro di poco è risultato chiaro che l’urgenza di condividere non si limitava ai tramonti ma riguardava qualsiasi evento della nostra vita. Siamo diventati, molto rapidamente, agili macchine da condivisione. Un simile atteggiamento ha separato così le persone in due grandi gruppi: quelli che si adattano a questa nuova influenza e quelli che, spesso non capendola, la contestano aspramente.
Jurgenson, citando Émile Zola, ci racconta che non si tratta di una novità: da sempre la tecnologia cambia il nostro sguardo e il suo rapporto con la verità. È accaduto con la fotografia, con le reti ferroviarie, accadrà probabilmente in futuro con qualche nuova diavoleria che ora nemmeno sappiamo immaginare. Tuttavia l’aspetto rilevante è che le attuali pratiche di condivisione forse aggiungono valore, forse lo tolgono, ma di sicuro sono in grado di scatenare il conflitto.
Scontri
Non passa settimana senza che nascano furibonde battaglie a margine delle scelte di condivisione di singole persone. Quasi sempre tali scontri prediligono la logica broadband: si concentrano su personaggi pubblici più o meno noti. Vertono in genere sull’opportunità di pubblicare immagini o video, sulle finalità nascoste di simili scelte, sulla spudoratezza o sulla malafede che simili pratiche suggeriscono a chi, trovandosele di fronte, le “subisce”.
Barbara Ellen sul Guardian parla di “una travolgente necessità di condivisione”: si riferisce alle foto postate dalla modella americana Chrissy Teigen subito dopo aver perso il terzo figlio a causa di complicazioni durante la gravidanza. Le immagini, pubblicate su Instagram in un patinato bianco e nero, hanno scatenato grandi polemiche sui social network e sono finite perfino sulla prima pagina del principale quotidiano italiano. Milioni di persone si sono trovate improvvisamente di fronte una rappresentazione inedita del dolore altrui e hanno sentito la necessità di commentarlo.
Non è difficile capire – dice Ellen – che se il tuo sguardo è quello, se sei nata e cresciuta dentro un simile contesto, anche il dolore e perfino la morte potranno esservi comprese, anche il tuo terzo figlio che non c’è più. Perfino l’abbraccio intimo e disperato con il tuo celebre marito potrà essere esposto alla visione di milioni di persone pochi attimi dopo che la tragedia si è compiuta.
Qualcosa di analogo, con più spiccati accenti locali e minor drammaticità, ha riguardato le foto dell’annuncio della seconda gravidanza di Chiara Ferragni. La foto familiare con l’ecografia del prossimo nascituro in bella mostra ha scatenato le usuali polemiche su opportunismo e lungimiranza, su cinico interesse e sguardo aperto verso il mondo.
Fili sempre più annodati
Del resto non esiste solo la folta pattuglia dei “fuori dai social”, quelli cioè che a stento riescono a farsi un’idea di quanto stia accadendo (ma che da noi rappresentano la grande maggioranza degli opinionisti sui mezzi di informazione): anche fra chi ogni giorno utilizza simili strumenti e ne ha competenza le critiche spesso crescono imperiose.
Sullo sguardo che genera tutto questo e sulle sue conseguenze sarà così utile discutere, ma servirà farlo tenendo conto di quanto profondamente abbiano inciso sulle nostre vite le tecnologie di condivisione. Di quanto i fili fra le persone negli ultimi anni si siano fatti fittissimi e annodati, di quanto la complessità dei nostri sentimenti sia costretta a combattere ogni giorno con le velocità delle reti.
A me sembra che da tutto questo nasca una sostanziale impossibilità di giudizio. Ciò che ci appare intimo – la nascita, la morte, la condivisione di emozioni personali potenti che fino a ieri associavamo a relazioni familiari o sentimentali – è in realtà oggi enormemente distante. Talmente distante da poter riguardare persone famose il cui nome leggiamo ora per la prima volta e che abitano dall’altra parte del mondo. È qualcosa su cui non abbiamo informazioni certe e sulla cui natura sarà facilissimo ingannarci.
Se c’è qualcosa che le reti sociali potrebbero insegnarci è che – certo – il nostro sguardo è ormai altissimo e domina l’orizzonte, ma benché l’impressione che proviamo sia quella di poter comprendere tutto, in realtà continuiamo a sapere poco di tutto. Esattamente come prima, esattamente come quando Émile Zola nel 1901 diceva che “nulla esiste davvero se non è stato fotografato”. Non era vero allora, non lo è oggi.