La teoria del tutto
Cos’è. È il film che racconta la vita di Stephen Hawking, l’astrofisico più famoso di tutti i tempi, autore di Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, affetto da sla. Il film è tratto dal libro scritto dalla sua prima moglie, Jane Wilde Hawking, e racconta soprattutto la vita dello scienziato durante la loro relazione, dall’incontro all’università di Cambridge fino al successo editoriale e alla fama planetaria. In parallelo racconta anche il progresso della malattia, dai primi sintomi fino alla paralisi totale e alla comunicazione con sintesi vocale (come sanno i fan dei Radiohead). Il titolo del film si riferisce all’intento di tutti i fisici, Hawking compreso, quello dell’unificazione dei campi: un’equazione che descriva il comportamento della materia su ogni scala, dal mondo subatomico a quello galattico. Hawking è interpretato dall’attore londinese Eddie Redmayne, mentre la moglie è Felicity Jones. Nel cast ci sono anche Emily Watson e David Thewlis. Il film è candidato a cinque Oscar e ha già ricevuto quattro Golden globe.
Com’è. È un film che parla di genio, amore e disabilità. C’è anche la sregolatezza, perché nel carattere di Hawking si muove una forma di ribellismo anarcoide giocoso che la malattia rende solo più sottile. Ovviamente la malattia e il suo progredire negli anni, mentre il genio del protagonista diventa evidente per il mondo scientifico, monopolizzano un bel pezzo del film, come hanno fatto nel mondo reale. Il tentativo di vivere invece come delle persone normali diventa per la famiglia Hawking un problema serio, e gran parte del film è dedicato alla difficile realizzazione di questo intento. La parte scientifica della vita di Hawking è solo sfiorata, e gli spiegoni indispensabili per capire qualcosa sono nascosti bene nella sceneggiatura. In un equilibrio tra scene commoventi, momenti buffi, interni domestici e retroscena storico-culturale che scorre sullo sfondo, il film si appoggia sulla recitazione dei protagonisti per restare composto quanto basta. Si sa che interpretare ruoli di persone sofferenti o sfortunate per qualsiasi motivo è già di per sé motivo di aspirazione all’Oscar, per quell’idea malintesa di bella recitazione per cui James Stewart non avrebbe mai preso un premio. Detto questo, Redmayne è straordinariamente bravo, così come Felicity Jones. La regia del documentarista James Marsch è discreta per buona parte del film.
Perché vederlo. Questo è ovviamente un film di recitazione, genere sul quale il pubblico cinematografico si divide abbastanza nettamente. Per quanto io non sia un amante delle grandi prove virtuosistiche d’attore, qui c’è quasi sempre equilibrio, e l’effetto è più di sincera immedesimazione che di funambolismo. La coppia Redmayne-Jones è molto convincente. Anche gli altri attori dimostrano, soprattutto nella prima metà del film, come la scuola inglese sia efficace sui mezzi toni. C’è poi, oltre alla recitazione, un modo di raccontare malattia e disabilità più sobrio di molte altre volte. Infine l’inglesità dell’ambientazione può piacere a chi, come me, si perde volentieri in certe viuzze col pub in fondo.
Perché non vederlo. Il film, pur onesto nel complesso, ha dei difetti strutturali gravi. Per prima cosa c’è che il fatto che la vita familiare di un genio assoluto con la sla è per molti versi come quella di mille altre persone. Questo è ovviamente un tema, cioè il fatto che il film si concentri su quell’aspetto e non su altri, ma la prospettiva unica della moglie risulta monotona e ristretta. In fondo questo è un genio che si è occupato di fisica ai massimi livelli mondiali, ma lo si vede a parlarne con qualcuno, fuori o dentro casa, forse quattro volte: sembra che le sue teorie nascano da una folgorazione mistica più che dallo studio e dal ragionamento.
Poi c’è il fatto che è anche un film su un handicap, il che è sì “lodevole”, posto che l’aggettivo abbia senso in un’opera di finzione, ma forse anche un po’ gratuito. Dico forse perché nelle scene in cui Hawking si trascina a fatica su e giù dalle scale, per esempio, non è facile capire quanto sia giusto e quanto troppo, quanto serva alla storia e quanto al lacrimone. Queste domande, uno non se le pone se va a vedere Qualcuno volò sul nido del cuculo, per quanto anche lì ci siano momenti che suscitano molta compassione. La ragione sta nel fatto che questo film tratta temi che non sono all’altezza del suo regista, mentre Miloš Forman, che è sempre stato un gigante, se li poteva permettere serenamente. Soprattutto il finale perde tutta la compostezza che con qualche fatica aveva difeso per un’ora e mezza, sbatte lì degli sfocati, dei ralenti, delle geometrie da pubblicità che in un film come questo, con tema e protagonista come questi, puzzano di plastica bruciata. Anche la fotografia, molto spesso virata su un tono o sull’altro, un po’ effettistica nel complesso, contribuisce a dare un senso di fasullo e ricattatorio. Ci si alza, insomma, scuotendo la testa.
Una battuta. È una specie di religione per atei intelligenti.
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