Dopo il suicidio rumoroso del governo Renzi, il leitmotiv dell’opposizione (a partire da quella interna al Pd di Speranza, Bersani e D’Alema) è uno solo: tutte le sue riforme hanno fallito. Il jobs act, perché la disoccupazione aumenta e i licenziamenti anche; la riforma Madia perché bocciata dalla corte costituzionale; e soprattutto la buona scuola, perché l’anno scolastico è cominciato in un caos senza precedenti. E così il governo Gentiloni sembra nato per far dimenticare, a partire dallo stile, l’attivismo frenetico e conflittuale di Renzi; e riportare tutti in una lenta, concertativa e rassicurante Italia della mediazione.
La buona scuola rischia di diventare la vittima sacrificale di questo rito di passaggio. Sul jobs act e la riforma Madia forse il contenzioso è ancora aperto: per il primo, bisogna aspettare di avere cifre più precise (dato l’innegabile aumento degli occupati) e su periodi più lunghi per valutare; la seconda può essere corretta per venire incontro alle osservazioni della corte costituzionale.
Invece, agli occhi dell’opinione pubblica, la riforma della scuola sembra essersi sfasciata del tutto: prima l’opposizione massiccia di insegnanti e sindacati, poi il malessere nelle scuole dopo l’approvazione, e infine la cosa peggiore: una tornata gigantesca di trasferimenti che ha fatto piombare l’inizio dell’anno scolastico 2016/2017 in una confusione totale, con girandole di docenti, ritardi spaventosi nelle nomine, classi scoperte fino a dicembre. La sensazione diffusa è di un fallimento totale. Il nuovo governo ha provveduto a personificare il sacrificio, cambiando una sola ministra, quella dell’istruzione. Subito dopo, l’accordo tra la nuova ministra Fedeli e i sindacati per i trasferimenti dell’anno prossimo svuota di fatto le norme della buona scuola.
Un aspetto contingente
L’inizio del nuovo anno, però, ha dato un segnale opposto: il consiglio dei ministri ha approvato in prima lettura quasi tutte le deleghe della buona scuola, in modo da salvarle avviando il loro iter. Esse contengono alcune tra le cose più importanti e innovative, e questa decisione sembra indicare che si vuole portare a termine il percorso iniziato.
Allo stesso tempo, molti contenuti delle deleghe sono parzialmente ridimensionati, a causa del nuovo clima politico e del poco tempo a disposizione. Sarebbe però un grave errore abbandonare il progetto generale, sulla base di una percezione negativa dovuta soprattutto a un solo aspetto della riforma, il piano straordinario di assunzioni, un aspetto certo importante ma in fondo contingente.
La buona scuola, cioè la legge 107 del 2015, interviene su diversi aspetti del sistema scolastico: cerca di rafforzare l’autonomia delle scuole con i piani triennali dell’offerta formativa, con l’organico dell’autonomia (funzionale alle esigenze della scuola), permettendo ai dirigenti scolastici di scegliere in parte i docenti, rilanciando le reti scolastiche, rafforzando modestamente i poteri dei dirigenti e valutandoli; modifica alcune parti dell’ordinamento, come l’opzionalità nel curriculum degli studenti, l’alternanza scuola-lavoro, il piano nazionale della scuola digitale, gli istituti professionali e la formazione professionale, la valutazione degli studenti, l’inclusione dei disabili, il sistema integrato di educazione e istruzione tra zero e sei anni, il diritto allo studio; prevede un piano straordinario di assunzioni, con un correlativo piano straordinario di mobilità, insieme a una riforma dei sistemi di formazione iniziale, reclutamento, valutazione e valorizzazione dei docenti (il bonus); interviene sulla formazione terziaria, postdiploma, rafforzando gli istituti tecnici superiori e l’alta formazione artistica, musicale e coreutica; prevede infine numerosi interventi di edilizia scolastica.
L’opposizione alla legge si è manifestata solo su alcuni punti, per quanto qualificanti
Questa rassegna rapida e incompleta serve a ricordare due cose: la legge tocca numerosi ambiti, sui quali era necessario intervenire a causa dei problemi accumulati negli anni (si pensi per esempio agli esami di stato, al reclutamento dei docenti, alla crisi degli istituti professionali); l’opposizione alla legge si è manifestata solo su alcuni punti, per quanto qualificanti (i poteri dei dirigenti scolatici, la “chiamata diretta” dei docenti dagli ambiti territoriali, il bonus per la valorizzazione del merito dei docenti), ma non su tutti gli altri, spesso trascurati o del tutto ignorati.
Quanto al piano straordinario di assunzioni, e alle operazioni di mobilità a esso correlate: è evidente che, benché importante come “misura di emergenza” volta a risolvere il grave problema del precariato, sia un aspetto contingente, non un intervento strutturale. Le difficoltà e gli errori, però, si sono accumulati quasi tutti qui.
Se si lascia da parte questo aspetto, infatti, nel primo anno di applicazione della legge 107 le difficoltà hanno riguardato soprattutto l’alternanza scuola-lavoro, che ha posto enormi problemi di applicazione, ma che quasi nessuno aveva attaccato nella fase di elaborazione. Il bonus per la valorizzazione del merito è stato certo molto contestato, ma alla fine, nell’anno scolastico 2015-16, la conflittualità su questo tema non è stata eccessiva, perché in molte scuole i dirigenti hanno preferito fare scelte condivise. L’altro punto oggetto di violente polemiche, la “chiamata diretta”, è stato applicato in misura molto ristretta, già dall’accordo sulla mobilità dell’anno scorso, quindi non ha creato problemi (e a quanto pare sarà ridimensionato ancora per la prossima mobilità).
Un mostro giuridico
L’enorme quantità di conflitti, e di difficoltà nella gestione, è nata dalla assunzione dei precari delle graduatorie a esaurimento (Gae). Il progetto iniziale del governo era di svuotarle, per chiudere il meccanismo fondato sulla immissione in ruolo per scorrimento, e tornare ad assumere solo per concorso.
Certo, la soluzione era contestabile: da una parte, perché si decideva di assumere in modo indiscriminato molte persone che erano rimaste fuori della scuola o quasi, insomma si rinunciava a selezionare i docenti; dall’altra, perché non sarebbero stati assunti molti precari che non si trovavano in quelle graduatorie. La fondazione Agnelli ha fatto il primo tipo di critica, mentre i sindacati hanno fatto la seconda, chiedendo l’assunzione di tutti i precari della scuola che avessero una certa anzianità. La scelta del governo aveva però una ratio: chiudere quel mostro giuridico che erano diventate le Gae. Nonostante le criticità, nessuno si opponeva all’idea di dare un posto di ruolo ai precari.
I problemi sono nati nell’applicazione. In primo luogo, le assunzioni dovevano tenere conto delle esigenze del sistema scolastico. Per questa ragione sono state elaborate le complicate fasi che servivano a recensire i posti effettivamente disponibili, prima su base provinciale, poi su base nazionale, e poi per il potenziamento.
La distinzione tra questi passaggi ha provocato gli spostamenti dei docenti neoassunti a volte in regioni molto lontane, da una parte, e dall’altra l’assunzione anche in scuole vicine, nella fase del potenziamento, di persone che però non servivano direttamente alle scuole. Da un lato, quindi, le “deportazioni”, esagerate da opposizioni irresponsabili e mezzi d’informazione compiacenti, e dall’altro gli organici del “potenziamento” inadeguati alla richieste delle scuole: questi due problemi hanno provocato, tra l’agosto e il dicembre 2015, la prima ondata di grave malcontento e la percezione di una grande confusione, con le oggettive difficoltà di gestione per le scuole e i dirigenti.
In seguito, è venuta la mobilità straordinaria. La legge 107 prevedeva fin dall’inizio la mobilità solo tra ambiti: i docenti si sarebbero trasferiti perdendo la titolarità su scuola e acquisendola su ambito, per poi essere scelti dai dirigenti scolastici. L’accordo per la mobilità 2016/17 ha invece portato a un primo compromesso, che ha distinto anche i trasferimenti in diverse fasi, in cui alla fine sono stati trasferiti su ambito solo i docenti assunti nella fase finale delle assunzioni straordinarie, mentre tutti gli altri hanno avuto il trasferimento su sede.
È da questo accordo che sono nati i problemi più grossi: la prima intesa è stata firmata a febbraio 2016, ma è rimasta ferma per due mesi, anche perché il consiglio di stato aveva mosso delle obiezioni, poiché la lettera delle legge 107 non veniva rispettata; il contratto e l’ordinanza sono stati approvati solo ad aprile, e quindi le operazioni per i trasferimenti sono cominciate con due mesi di ritardo. Questi due mesi non sono stati mai recuperati, anzi il ritardo si è aggravato, e quindi, se di solito si riescono a nominare gli ultimi docenti a fine agosto o inizio settembre, le ultime operazioni legate alle assegnazioni provvisorie si sono concluse tra novembre e dicembre.
Va ricordato infatti che dopo i trasferimenti, conclusi entro la prima settimana di settembre, ci sono le “assegnazioni provvisorie”: i docenti possono chiedere di lasciare la sede di ruolo per andare a occupare una cattedra temporaneamente libera per ragioni contingenti (congedi annuali, distacchi eccetera), ma più vicina a casa.
Le assegnazioni provvisorie di solito le ottenevano solo i docenti che non avessero ottenuto il trasferimento; questa volta invece sono state concesse anche a chi lo aveva avuto, ma non era soddisfatto. È quest’ultimo passaggio, unito al ritardo della mobilità, che ha creato lo sconquasso di inizio anno: i docenti sono arrivati sulle cattedre con i trasferimenti all’inizio di settembre.
Superata la parte più pesante
Molti di loro erano neoassunti provenienti da regioni meridionali nominati su sedi settentrionali o centrali, che hanno fatto subito domanda di assegnazione provvisoria, così i dirigenti fin dall’inizio non hanno potuto fare affidamento su questo personale. Spesso i docenti hanno usato tutti i mezzi contrattuali disponibili (permessi di ogni genere) per non essere presenti durante l’attesa.
Poi hanno ottenuto l’assegnazione provvisoria e hanno lasciato la scuola di titolarità; così è stato necessario cercare i supplenti, cosa non facile, perché la situazione delle graduatorie, in questa instabilità, non era certa, c’era sempre il rischio che il nominato non fosse quello che avesse diritto effettivamente (le famigerate nomine “fino ad avente diritto”).
Nel frattempo, altre cattedre restavano vuote perché le graduatorie di quelle classi di concorso erano esaurite (si tratta delle classi di concorso che avrebbe dovuto coprire il concorso, per esempio matematica) e spesso queste cattedre sono rimaste vuote fino a dicembre.
A tutte queste vicende si sono sovrapposte quelle del concorso, che si è svolto in tempi troppo brevi, tra la primavera e l’estate 2016, con gravi incertezze nella formazione delle commissioni e nei criteri di valutazioni, con contestazioni di ogni genere sul numero eccessivo di bocciati e così via. Anche su questo passaggio, che era il più difendibile della riforma, cioè il ritorno al concorso come strumento prioritario di reclutamento, le inadeguatezze nell’applicazione hanno gettato ombra su tutta la riforma.
È importante che i dirigenti scolastici e i docenti esercitino la loro autonomia
In sintesi: il disagio nelle scuole è stato creato quasi tutto dalla gestione amministrativa dell’assunzione del personale. Questo è molto grave. Il primo responsabile è il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur), che non ha tenuto conto dei tempi stretti per gestire una partita così complessa, e non ne è stato all’altezza.
Ma va ricordato anche che la complessità è stata generata dall’impegno di venire incontro alle esigenze dei docenti: l’accordo sulla mobilità firmato l’anno scorso ha permesso alla maggior parte dei docenti di avere il trasferimento su sede, venendo incontro a una richiesta diffusa, ma questo ha reso la procedura molto più lunga e rigida; inoltre l’uso estensivo delle assegnazioni provvisorie è servito a riavvicinare a casa molti docenti meridionali assegnati a sedi al nord.
Al di là del rimpallo di responsabilità tra governo e sindacati, un esito del genere non è originato dalla legge 107, che prevedendo una mobilità solo su ambiti avrebbe permesso procedure più rapide.
Sviluppare le parti migliori
Che fare, dopo tutto questo? Ormai questa parte, la più pesante da gestire, è passata. Adesso bisogna sviluppare le parti migliori della riforma, evitando di alimentare l’equivoco del “disastro generale”.
In primo luogo, bisogna rafforzare l’organico dell’autonomia. Questo è il punto più qualificante della riforma. L’idea dell’organico dell’autonomia, in sé, è forte e innovativa: le scuole ottengono l’organico funzionale alla loro offerta formativa, invece di avere un organico determinato rigidamente sulla base del rapporto tra classi e ore cattedra.
Tuttavia, la prima applicazione è stata molto difettosa, perché le scuole hanno ricevuto i docenti che si trovavano nelle Gae, non quelli di cui avevano bisogno realmente. Con il tempo, però, questa situazione si può sanare; e intanto è molto importante che i dirigenti scolastici e i collegi docenti esercitino la loro autonomia utilizzando al meglio le risorse che hanno ricevuto, anche con una certa creatività.
La distribuzione del bonus per il merito dei docenti è molto diseguale e, in fondo, arbitraria
Per salvare questa innovazione, tuttavia, bisognerebbe preservarne un’altra qualificante della buona scuola, cioè la “chiamata diretta” dei docenti dagli ambiti territoriali. Se si vuole pensare a una scuola più flessibile e autonoma, più capace di gestire le proprie risorse, deve essere lasciata una elasticità di scelta. Invece questo è uno dei punti più contestati della riforma, e per ora ha avuto un’applicazione molto ristretta. È giusto cercare di ristabilire un dialogo con i sindacati, definendo i limiti di questo strumento, ma sarebbe un errore spingersi fino a eliminare, di fatto, la “chiamata diretta”, perché limiterebbe gli spazi di autonomia che questa riforma vuole concedere alle scuole.
In secondo luogo, bisogna affrontare le reali difficoltà emerse in questo primo anno e mezzo di applicazione. La prima è il bonus per la valorizzazione del merito dei docenti. È vero che, nonostante i timori, i conflitti generati da questa innovazione non sono stati gravi. Ma ciò è successo perché molte scuole hanno, di fatto, usato lo strumento come una estensione del fondo di istituto; in altre sono stati seguiti dei criteri più “meritocratici”, ma il problema è che la distribuzione del bonus è molto diseguale e, in fondo, arbitraria. È poco chiaro quanto possa contribuire all’effettivo miglioramento della didattica.
Sviluppare l’alternanza scuola-lavoro
È necessaria una revisione rapida di questo strumento, più rapida dei tre anni previsti dalla legge 107. E si dovrebbe riaprire il dibattito sugli strumenti più adeguati per garantire equità e merito nella retribuzione dei docenti: soprattutto, si dovrebbe discutere seriamente dell’opportunità di una carriera dei docenti, agganciata a valutazioni periodiche della loro attività.
La seconda difficoltà è l’alternanza scuola-lavoro. Il nuovo regime previsto dalla legge 107, che la rende obbligatoria per tutti gli studenti nel triennio finale delle superiori, e impone un monte ore considerevole (200 ore nel triennio per i licei, e 400 per tecnici e professionali), è molto gravoso da applicare.
I tempi sono stati troppo stretti, le scuole hanno avuto enormi difficoltà a trovare enti e imprese disponibili ad accogliere gli studenti, il registro delle imprese previsto dalla legge non è stato mai approntato, e l’inserimento dell’alternanza nella didattica, specie nei licei, è molto difficoltoso. Il tutto rischia di trasformarsi in un pesante impegno burocratico che le scuole cercano di assolvere come possono, su un piano puramente formale, senza ottenere risultati sostanziali. L’alternanza, tuttavia, è un’idea buona, che va sviluppata. Bisogna cercare di risolvere questi problemi (a partire dal registro delle imprese), cercando di dare più elasticità e gradualità al progetto, per esempio nel numero di ore da svolgere, lasciando più autonomia alle scuole anche su questo terreno.
La vera posta in gioco
Infine, occorre attuare con determinazione le parti migliori della riforma, tra le quali molti contenuti delle deleghe: la costituzione di un sistema di educazione della prima infanzia che assicuri la copertura della domanda di nidi, e promuova una formazione effettiva fin dai primi anni, momento cruciale nel determinare lo sviluppo delle competenze di base; la riforma della valutazione degli studenti e degli esami di Stato; la revisione del percorso di formazione e reclutamento dei docenti, che nella versione proposta dalla delega è forse discutibile, ma certo più funzionale degli attuali tirocini formativi attivi (Tfa); il riordino del settore del sostegno, che attualmente attraversa non poche difficoltà; il rafforzamento dell’istruzione tecnica superiore, necessario per evitare, come capita ancora in Italia, che l’unico sbocco formativo successivo al diploma sia l’università; il monitoraggio e il rilancio dell’istruzione degli adulti che è la vera frontiera su cui lottare per promuovere l’eguaglianza delle competenze nelle società moderne; la ricostituzione del diritto allo studio.
Già solo questa agenda mostra qual è la posta in gioco. Non si tratta affatto, come è stato detto nella campagna contro il decreto legge in fase di approvazione, e come viene ripetuto a pappagallo dalle opposizioni “veramente di sinistra”, di una visione “neoliberista” e aziendalista della scuola; si tratta invece di continuare a promuovere (o promuovere davvero) il processo della autonomia delle scuole, e di riordinare ampie parti del sistema scolastico per realizzare obiettivi di equità sociale, per permettere ai cittadini un migliore accesso all’istruzione.
L’errore più grave sarebbe esitare, o lasciar morire lentamente questo disegno di riforma, cadendo nell’equivoco delle parole d’ordine che lo hanno accompagnato: credendo davvero, cioè, che tutta la buona scuola si riassuma nella “chiamata diretta” o nel bonus per i docenti (o peggio ancora negli inesistenti “presidi sceriffo”), o nella Caporetto amministrativa delle assunzioni e dei trasferimenti.
Continuare ad avere questo sguardo miope significa decidere di perdere un’altra occasione cruciale, come è successo per le riforme promosse da Berlinguer alla fine degli anni novanta. E impedirsi di guardare avanti: dopo il lavoro avviato dalla buona scuola, bisogna avere il coraggio di mettere mano alla riforma vera, quella che sta oltre questi preliminari: il riordino dei cicli e la ristrutturazione della didattica – rigida e disciplinare – della scuola secondaria, di primo e secondo grado.
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