È stato un applauso unanime dei grandi elettori Pd a salutare la proposta di candidare Romano Prodi. Come d’incanto sono sparite le divisioni, le lacerazioni vissute dal partito solo un giorno prima. Il partito si ricompatta intorno al nome del suo fondatore, del suo padre nobile.
Ma questo ricompattamento, temo, è più apparente che reale. Non solo perché l’accordo raggiunto deve ancora passare l’esame del voto – segreto – in aula. Ma soprattutto perché lo spettacolo dato finora dal Pd è quello di un partito pericolosamente vicino alla dissoluzione. Di un insieme di cordate, correnti e sottocorrenti che marciano ognuna come se fossero partiti a sé, e che talvolta non si configurano neanche come alleanza seppur spuria. Nella forma più palese lo dimostrano i renziani: ormai rispondono a una disciplina tutta interna al loro gruppo, svincolati, indipendenti.
E hanno avuto gioco facile, grazie alla decisione di Bersani di puntare su Franco Marini. Surreale era l’annuncio di “una bella sorpresa”, surreale pure il commento di diversi deputati – a cominciare da Beppe Fioroni – che nell’ondata di proteste indignate e sconcertate hanno voluto vedere una risposta “organizzata”. Da chi, dai grillini? Reazioni di questo genere ci fanno vedere che gran parte dei leader del Pd non sanno neanche più cosa pensano e cosa vogliono i loro elettori e militanti. Certo non un patto con Berlusconi che avrebbe significato il suicidio immediato del Pd.
Ora la candidatura di Prodi diventa anche l’ultimo salvagente per i democratici, ma solo per evitare l’implosione immediata. Un’implosione sempre più probabile se anche Prodi dovesse essere silurato dalle fazioni del Pd propense alle grandi intese e contrarie a elezioni anticipate. Ma anche un esito favorevole non garantirebbe di più di una brevissima tregua in un partito in cui l’unico legame rimasto sembra il bel patrimonio, accumulato nel tempo, di odi e rancori reciproci.
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