Due sono le alternative: o all’estero non leggono i giornali o il risultato delle elezioni italiane non è poi così apocalittico come qualcuno ama presentarlo. Basta uno sguardo allo spread, la differenza tra gli interessi sui titoli di stato tedeschi e quelli italiani. Era all’1,3 per cento la settimana scorsa (del resto uno dei valori più bassi dell’ultimo anno), è all’1,3 per cento anche il martedì dopo le elezioni. Anche se qualche giornale parla di “panico a Bruxelles”, quel panico, strano a dirsi, non ha contagiato i mercati finanziari.

Certo, questo voto ha sconvolto il paesaggio politico italiano, ma non è stato un voto eversivo che potrebbe mettere in pericolo la democrazia italiana, e neanche un voto che potrebbe causare imminenti scontri epocali tra l’Italia e l’Unione europea. Poi, in fin dei conti, è tutto andato secondo copione. Era prevista l’avanzata dei cinquestelle, la sconfitta del Pd e l’affermazione del centrodestra come prima alleanza.

Ma, va aggiunto, qualche lieve variazione sul copione c’è stata. I sondaggisti non avevano previsto l’M5s quasi al 33 per cento, e neppure che la sconfitta del Pd, e di Renzi, si sarebbe trasformata in vera e propria disfatta. Infatti se Renzi ancora due giorni prima delle elezioni annunciava di voler restare segretario del Pd anche in caso di sconfitta – “sono eletto fino al 2021” – ora ha annunciato le sue dimissioni, ineludibili di fronte a questo disastro.

Di Maio ha intrapreso un paziente lavoro per tranquillizzare chi all’estero vedeva l’M5s come un’accozzaglia antieuropea

Ha ragione Luigi Di Maio quando dichiara finita la seconda repubblica, quella nata con la vittoria di Berlusconi nel 1994, quella caratterizzata dal bipolarismo fra il campo berlusconiano e il centrosinistra(per esempio alle elezioni del 2006 il 99,55 per cento dei voti era andata alle due coalizioni di Prodi e Berlusconi). Già con le elezioni del 2013 i cinquestelle si erano inseriti come terzi incomodi in questo bipolarismo. Ora gli hanno dato la spallata finale. E forse hanno dato la spallata finale anche a tutto il campo del centrosinistra, ridotto in macerie.

Mentre il Pd infatti si ferma a un misero 18,7 per cento – quasi sette punti percentuali sotto il risultato di Pierluigi Bersani del 2013 – le forze viste come anti-sistema, profondamente euroscettiche, superano ampiamente il 50 per cento, con il 32,7 per cento dell’M5s, il 17,4 per cento della Lega e il 4,3 per cento di Fratelli d’Italia. E allora si ripropone la domanda: come mai nelle capitali europee, nei mercati finanziari non si è diffuso il panico?

È stata l’abilità politica dei cinquestelle, l’abilità in primis di Di Maio a portare a questo risultato. Da un lato l’M5s ha tenuto la barra dritta su un programma in larga parte invariato rispetto al 2013, a cominciare dal reddito di cittadinanza, ma anche con sostanziose riduzioni delle tasse per gli imprenditori. Dall’altro lato Di Maio ha intrapreso un paziente lavoro per tranquillizzare chi all’estero vedeva l’M5s come un’altra accozzaglia populista e antieuropea, alla stregua di Marine Le Pen, di Nigel Farage o di Geert Wilders, incontrando ambasciatori degli stati dell’Ue, frequentando le capitali europee, confrontandosi con manager di grandi fondi di investimento. Verso tutti quanti ha enunciato il messaggio che almeno in un punto la linea dei Pentastellati era cambiato: niente più uscita dall’euro, niente più referendum, “la nostra casa è l’Europa”.

Promettere ai propri cittadini un cambiamento radicale, promettere allo stesso tempo ai partner europei la sostanziale affidabilità e stabilità dell’Italia: a parole è facile coniugare questi due approcci. Sarà molto più arduo realizzarlo nei fatti se e quando l’M5s sarà investito di responsabilità di governo. Ed è fin troppo ovvio che un ipotetico governo M5s-Lega distruggerebbe quella credibilità, del resto ancora molto incerta, che i cinquestelle si sono costruiti in Europa. Allora sì che si diffonderebbe il panico.

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