Non poteva andare peggio per il centrodestra: non ha toccato palla né a Roma né a Torino, dopo aver già perso malamente due settimane fa a Milano, a Napoli e a Bologna. Contava poco, a quanto pare, il profilo del candidato (non si è parlato di candidate in questa tornata, né a destra né a sinistra). È stata una disfatta sia per Enrico Michetti a Roma, personaggio da barzelletta uscito dagli anfratti di una radio locale ammiccante ai no vax e ai nostalgici del fascismo, sia per Paolo Damilano, imprenditore moderato a Torino. E non hanno contato granché neanche le alleanze locali. A Milano, Roma e Torino il Partito democratico (Pd) e i suoi alleati storici hanno stravinto senza il sostegno del Movimento 5 stelle (M5s), mentre a Napoli e Bologna ha trionfato un centrosinistra “allargato” all’M5s.

Ma ha stravinto soprattutto l’astensione. Questo fatto dovrebbe incutere molta cautela nel trarre affrettate conclusioni per futuri scenari nazionali. Quando più del 50 per cento dei cittadini rimane semplicemente a casa, infischiandosene di chi sarà il loro sindaco (come detto, di sindache non se ne parla granché), c’è da preoccuparsi.

Possiamo interrogarci sui motivi di questo massiccio astensionismo. È dovuto alla convinzione che la politica non muove più niente? È dovuto all’assenza dei partiti? Per dire: nel mio quartiere di Roma non si sono visti manifesti elettorali e tantomeno banchi o gazebo dei candidati (se non quello di Gualtieri, in piazza, chiuso quasi tutti i giorni). È dovuto al fatto che i partiti, dalla Lega al Pd a Liberi e uguali, sono percepiti come forze gregarie di un governo dominato dai tecnocrati di Mario Draghi?

Quale sarà la ricetta di Letta non solo per battere la destra nelle urne ma per poi governare?

Di fronte a questo trionfo dell’astensionismo nessun partito ha motivi per esultare. Ma rimane il fatto che il voto investe i partiti in maniera molto diversa. Può essere contento Enrico Letta. Le forze a lui ostili all’interno del suo stesso partito di fronte al successo del Pd si calmeranno un po’. Letta potrà portare avanti il suo progetto di un “campo largo”, di un’alleanza di centrosinistra aperta anche verso l’M5s di Giuseppe Conte. Ma il lavoro comincia adesso. Cosa sarà questo campo largo, formula non del tutto inedita? Se pensiamo alle infauste esperienze dei governi Prodi (del 1996-1998 e del 2006-2008) con le sue coalizioni davvero “larghe” – da Lamberto Dini e Clemente Mastella a Fausto Bertinotti e Franco Turigliatto della “sinistra anticapitalista” di estrazione trozkista – ci si pone l’eterna domanda: quale sarà la ricetta di Letta non solo per battere la destra nelle urne ma per poi governare?

L’alleato più importante in quel futuro centrosinistra sarebbe l’M5s, uscito malconcio da queste elezioni, con risultati da prefisso telefonico in molte città. Va detto che, con poche eccezioni come le elezioni di Roma o di Torino nel 2016, l’M5s ha sempre avuto gravi difficoltà ad affermarsi a livello locale (e anche regionale). Ma non risolverà i suoi drammi affrontando il problema del radicamento nei territori (problema comunque apertissimo).

Il vero nocciolo è quello dell’identità di un movimento nato protestatario, contro la “casta”, “né di destra né di sinistra”, che ormai ha prospettive di sopravvivenza soltanto come forza di governo nell’ambito del centrosinistra. Che quindi deve cercare l’alleanza col Pd senza appiattirsi sul partito di Letta: un esercizio tutt’altro che facile per una forza politica sotto la guida di Giuseppe Conte, sempre popolarissimo secondo tutti i sondaggi ma sempre personaggio dall’identità non troppo definita neanche lui, avendo governato prima con la Lega e poi con il Pd senza battere ciglio. Gli spunti ci starebbero, dall’impegno dei cinquestelle per una politica più vicina ai cittadini alle istanze ecologiche, più attuali che mai. È tutto da vedere se l’M5s riuscirà a crearsi finalmente un’identità che vada al di là della protesta.

Chi si deve fasciare la testa, ma non troppo, è la destra italiana. Ha sbagliato molto sulle scelte dei candidati, tra il pistolero di Milano (portato da Salvini) e il conferenziere improbabile di Roma (voluto da Meloni). Ha sbagliato anche nello strizzare l’occhio ai no vax (ma quanto contano in una popolazione vaccinata ormai all’85 per cento?), ma le ragioni che hanno reso forte il populismo italiano sono tutte lì. L’elettorato di Lega e Fratelli d’Italia è rimasto a casa, ma non ha cambiato casacca. È sempre presente, mobilitabile in future occasioni. C’è chi vuole che “l’ondata del populismo” con questa tornata elettorale si sia “sgonfiata”. Ma chi ce lo dice? Certo non un voto in cui gran parte dei cittadini, in primis quelli di destra, è rimasta a casa.

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