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Per un futuro senza nostalgia

Gabriella Giandelli

Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2017 nel numero 1197 di Internazionale.

L’essere umano esiste prima in un determinato momento, poi in un altro, poi in un altro ancora, finché non arriva la fine. Il periodo umano degli atomi che formano il nostro corpo è limitato nel tempo. Prima che nascessimo i nostri atomi appartenevano alle stelle; presto apparterranno alla terra, al mare o al cielo. Sappiamo che con il tempo ogni essere umano cesserà di essere e semplicemente sarà stato. Per questo cerchiamo di resistere al tempo. Ci ribelliamo alla sua autorità. Come gli amanti, siamo attratti dal passato, dai ricordi immaginari, dalla nostalgia.

Girando per il mondo con il telefono e il computer, oppure a piedi o in aereo, mi accorgo che in questo momento storico la nostalgia è una forza molto potente, che influenza buona parte dell’attuale retorica politica. Il gruppo Stato islamico e Al Qaeda invocano un ritorno agli splendori immaginari dei primi anni dell’islam. La campagna per la Brexit è stata combattuta a suon di slogan sul riprendersi l’autonomia da Bruxelles e con la promessa di un ritorno agli splendori immaginari del Regno Unito prima che entrasse nell’Unione europea. Appena vinte le elezioni, Donald Trump si è presentato in pubblico con lo slogan “make America great again” ricamato su un cappello da baseball e scandito in coro dai suoi sostenitori, che sognavano un ritorno alla grandezza immaginaria di un’America vincitrice della seconda guerra mondiale. Anche in India e in Cina i leader inseguono un ritorno alle grandezze immaginarie del passato, usurpate da invasori stranieri, colonizzatori e barbari. Tutti questi movimenti, in fondo, sono progetti di restaurazione.

Ma la nostalgia si manifesta anche nello spettacolo e nell’arte. Negli ultimi tempi, al cinema, i protagonisti sono personaggi creati una o più generazioni fa: supereroi, supercriminali, agenti supersegreti, superavventurieri dello spazio, simboli superironici di un passato supersexy. E in televisione, dove secondo gli esperti oggi ci sono i migliori sceneggiatori, le serie più popolari e acclamate sono ambientate in un passato dove è ancora possibile che i protagonisti siano quasi tutti bianchi. Mi è piaciuto tantissimo Mad men e a mia moglie è piaciuto tantissimo Downton abbey; come molti nostri amici in Pakistan abbiamo seguito e amato queste e altre serie a tal punto che solo casualmente le abbiamo riconosciute per quello che sono, cioè veicoli dell’immaginazione che ci portano verso il passato, lontani da un pianeta che in gran parte non è bianco. In Trono di spade, le leggi della fisica e della biologia ammettono l’esistenza di draghi sputafuoco, guerrieri zombi e inverni interminabili, ma non quella di personaggi non bianchi all’interno dei confini del continente occidentale. Le leggi della razza, a quanto pare, sono immutabili anche lì.

Neanche il mondo della tecnologia è immune alla nostalgia, anzi. Sui social network veniamo continuamente risucchiati dal presente per interagire con un passato curato fino ai minimi dettagli. Attraverso la tecnologia il passato diventa reale davanti ai nostri occhi come non lo era mai stato. Posso rivedere me stesso cinque secondi fa, la mia prima fidanzata cinque ore fa, il mio primo figlio cinque mesi fa, il mio primo cane cinque anni fa, il mio primo sorriso tra le braccia di mia madre cinquant’anni fa, e posso sfogliare all’infinito questi archivi del passato, mescolarli con le scelte di oggi, i like e i filtri, e creare nuovi ibridi passato-presente saltando tra le epoche, a volte da solo, a volte insieme ad altri, commentando, osservando, giocando e restando ipnotizzato mentre il mondo fuori dallo schermo passa inosservato per intervalli temporali sempre più lunghi. Chi pensava che Jorge Luis Borges fosse un pioniere del realismo magico si sbagliava: è stato un pioniere della fantascienza.

Perché siamo così attratti dalla nostalgia? In parte, credo, perché il passo dei cambiamenti sta accelerando. Nonostante il rapporto sempre più stretto con la tecnologia, dal punto di vista evolutivo l’essere umano è ancora un animale, e gli animali faticano ad adattarsi ai cambiamenti troppo rapidi. In un arco temporale abbastanza lungo, gli orsi polari potrebbero migrare dai ghiacci dell’Artide, sviluppare una peluria più scura, cominciare a nutrirsi in maniera diversa e imparare a prosperare in un clima nuovo e più caldo. Ma se i ghiacci dell’Artide si sciogliessero nel giro di pochi decenni, probabilmente gli orsi morirebbero.

La nostra capacità di adattamento è molto più sviluppata di quella degli orsi, ma anche noi subiamo lo stress del cambiamento. Il mondo in cui sono cresciuti i miei nonni non sarebbe parso così strano ai nonni dei miei nonni. Sì, certo, magari sarebbero rimasti sorpresi dalle poche automobili per le strade e dalle poche case illuminate con l’elettricità. Ma per i miei genitori è molto più sconcertante il mondo in cui stanno crescendo i miei figli oggi: un mondo di apparecchi digitali collegati a internet senza fili, fabbriche robotizzate, colture geneticamente modificate e voli quotidiani da Lahore a Rio de Janeiro passando per Sydney.

Siamo sempre più spaventati dal futuro. Presto ci fonderemo con la tecnologia, riprogrammeremo le nostre cellule, collegheremo i computer ai nostri circuiti neurali, impareremo ad adattarci sempre meglio ai cambiamenti e a viverli senza stress, ma al momento questa prospettiva non ci rassicura per niente. Davanti a noi vediamo caos e incertezza. E gli strumenti che l’evoluzione ci ha messo a disposizione per affrontare il caos e l’incertezza – e l’inevitabilità della nostra condizione mortale – sono diventati inadeguati. Le famiglie vengono sparpagliate per il mondo. La religione è stata piegata ai fini della politica e svuotata di spiritualità. I concetti di clan, tribù e nazione sono stati messi in crisi dall’ibridazione.

Per un nonno, volere bene a un nipote che vive dall’altra parte del mondo è lo stesso che volere bene a un nipote che vive sullo stesso pianerottolo? Di fronte alla transitorietà dell’esistenza, che consolazione può offrire una religiosità fondata sullo scontro con le altre religioni, e a volte tra sottogruppi della stessa religione? E l’ibridazione di una tribù con le altre non mette in crisi quel senso immutabile d’identità collettiva su cui si fonda anche l’identità individuale? Siamo sempre più sganciati da tutto, proprio mentre le correnti intorno a noi diventano più forti.

Il passato come alibi
Poiché il futuro come materia prima si è esaurito, oggi populisti e nazionalisti promettono il passato. Ma epoche diverse possono convivere in un solo continente? No

La nostra reazione è prevedibile. Il futuro che vorremmo ci appare sempre più improbabile, e il futuro che ci sembra più probabile ci riempie d’ansia. E così ci sentiamo impotenti: instabili nel presente, sradicati dal passato, resistenti al futuro. Siamo arrabbiati e diventiamo sensibili al richiamo pericoloso di ciarlatani, bigotti e xenofobi. Ci deprimiamo. E nella nostra depressione diventiamo anche pericolosi. In fin dei conti, un attentatore suicida è pur sempre un suicida.

Quando avevo nove anni io e la mia famiglia lasciammo la California, dove ci eravamo trasferiti perché mio padre doveva finire il dottorato di ricerca, e tornammo in Pakistan, a Lahore. Era la città dov’ero nato, ma non la vedevo da quando avevo tre anni. Fu un cambiamento totale, traumatico. Nel 1980 non esistevano né l’email né i social network né gli sms. La posta era lenta e inaffidabile. Le telefonate internazionali andavano prenotate in anticipo e costavano una fortuna. Non potevo più vedere né sentire nessuno dei miei amici.

Avevo lasciato un mondo ed ero entrato in un altro. La gente era diversa, gli odori erano diversi, il cibo aveva un gusto diverso. Anche le lingue erano diverse: non solo l’urdu, che non conoscevo, ma pure l’inglese, che ci veniva insegnato in una forma pachistana “standard” che spesso cozzava con il californiano. C’era un solo canale televisivo, si vedeva solo a certe ore e c’erano solo uno o due programmi alla settimana che mi piacevano. Così mi buttai sui libri.

Mi piaceva in particolare il fantasy. Lessi Le cronache di Narnia di C.S. Lewis: mi sembrava del tutto plausibile l’idea che dei bambini aprissero un armadio per entrare in una terra misteriosa e magica. Amavo anche i romanzi della Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien. Assimilare concetti importanti e complessi come clan, famiglia, storia, onore e forma, anche se i protagonisti erano hobbit ed elfi, fu un’esperienza formativa fondamentale per un ragazzino ex californiano che cercava la sua strada in Pakistan.

Sognavo sempre a occhi aperti. Passavo le mie lunghe e torride estati a Lahore fingendo di essere qualcun altro, da solo o con i miei cugini. Ma avevo anche un’altra passione. Mi affascinavano gli atlanti, con le loro bellissime mappe multicolori, le icone che cambiavano a seconda della dimensioni della popolazione, i contorni serpeggianti e ondulati. E mi affascinavano gli almanacchi e le loro descrizioni brevi dei paesi: una sintesi di storia, dati demografici, principali esportazioni, condizioni climatiche. Così cominciai a inventarmi paesi tutti miei.

Segnavo i confini a matita sulle mappe, rivendicando per il mio nuovo stato-nazione di volta in volta un’isola o una penisola, una catena montuosa o una valle. Ne descrivevo la storia in pochi paragrafi: i beni che producevano, le lingue che parlavano e via così. All’inizio questi paesi erano arcipelaghi sparsi in territori slegati l’uno dall’altro. Per esempio, parte della Bay Area di San Francisco formava uno stato con Lahore e dintorni.

Poi cominciai a creare paesi su isole inesistenti che facevo spuntare dal mare. Questi luoghi erano uniti geograficamente ma misti dal punto di vista demografico. Gli abitanti erano spesso di Lahore e San Francisco, ma altrettanto spesso c’era gente proveniente da altre parti del mondo, come la Cina, il Kenya, il Brasile e la Francia. Queste isole immaginarie si trovavano nel mezzo dell’oceano Indiano o del Pacifico, ma se qualcuno ci fosse andato e ne avesse visto gli abitanti, avrebbe trovato gente molto simile ai newyorchesi o ai londinesi di oggi.

Questi mondi di fantasia sono stati un punto di partenza per quella che oggi è diventata la mia professione. Ho cominciato il mio primo romanzo venticinque anni fa, quando non avevo ancora compiuto ventidue anni. Scrivo romanzi da più della metà della mia vita. Ma già nella metà precedente, prima di cominciare a scrivere, la narrazione mi è servita per orientarmi in un mondo che mi sembrava sconcertante.

Le storie mi hanno aiutato a mettere insieme parti della mia esistenza che la geografia e il tempo avevano irrimediabilmente separato. E mi hanno aiutato a immaginare un futuro in cui un meticcio come me potesse essere a suo agio. Non abito in un’isola nell’oceano Indiano con una popolazione variegata come quella di Londra né in uno stato composto di pezzi di Pakistan e di California. Ma negli ultimi trent’anni ho vissuto negli Stati Uniti, poi nel Regno Unito e poi in Pakistan. E ogni anno passo settimane negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e in tanti altri posti, e mi tengo in contatto quasi ogni giorno con amici e colleghi sparsi nei cinque continenti. Forse è una vita insolita, ma a me sta bene. È la diretta conseguenza di quei primi mondi che ho immaginato da bambino. Senza le mie storie, senza il viaggio e la direzione impliciti in quelle storie, forse questa vita non l’avrei mai trovata. Forse non l’avrei neanche cercata.

Il futuro è troppo importante per lasciarlo in mano ai politici di professione

Fin dalla notte dei tempi gli uomini si radunano intorno al fuoco per raccontare e ascoltare storie. Lo facciamo ancora, anche se il fuoco oggi è diventato uno schermo luminoso al cinema, nella televisione o nelle nostre mani. I motivi sono molti: la finzione narrativa ha tantissimo da offrirci. Ma in questo momento storico vale la pena di soffermarsi su un motivo in particolare: la narrazione è un antidoto alla nostalgia. Attraverso l’immaginazione creiamo il potenziale di ciò che sarà. Le religioni sono fatte di storie esattamente per questo. Le storie hanno il potere di liberarci dalla tirannia di ciò che è stato e di ciò che è.

Siamo tutti inventori di storie, e tutti dobbiamo fare la nostra parte nell’immaginare una via d’uscita dalle trappole della nostalgia disseminate dappertutto. Ma la responsabilità è soprattutto di quelli come noi, che inventano storie per vivere, e soprattutto di noi scrittori, perché siamo liberi di creare ciò che vogliamo, senza dover chiedere fondi per i nostri progetti come fanno i registi. Siamo le start up del mondo della narrazione, gli inventori pazzi e solitari nel dipartimento ricerca e sviluppo dell’immaginazione narrativa.

Dovremmo essere grati di questa opportunità. Il futuro è troppo importante per lasciarlo in mano ai politici di professione. Ed è troppo importante anche per lasciarlo in mano alle tecnologie. Altre immaginazioni e altri punti di vista devono rivendicare il loro ruolo. C’è bisogno di un racconto radicale e politicamente impegnato, che non necessariamente dovrà parlare di distopie o utopie. Dobbiamo attingere a tutta la follia, l’intui-zione e l’imprevedibilità di cui siamo capaci per raccontare dove vogliamo arrivare come individui, famiglie, società, culture, nazioni, organismi, abitanti della terra. Per fare questo non c’è bisogno di ambientare una storia nel futuro, basta un impegno politico radicale per il futuro.
Riprendere il controllo? Make America great again? Restaurare il califfato? Possiamo fare di meglio. Narratori, è il momento di provarci.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2017 nel numero 1197 di Internazionale.

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