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L’ideologia della stabilità distrugge il futuro dell’Africa

A Nairobi, in Kenya, alcune giovani raccolgono firme per chiedere che si rispetti la legge secondo cui almeno un terzo dei seggi in parlamento deve essere occupato da donne, il 22 gennaio 2018. (Yasuyoshi Chiba, Afp)

Nel 2017 il Kenya ha attraversato uno dei cicli elettorali più complicati della sua storia. Nel primo voto di agosto, aspramente contestato, aveva vinto il presidente in carica Uhuru Kenyatta. Come previsto, l’opposizione aveva presentato ricorso in tribunale contro i risultati. Anche se tanti consideravano fondata la protesta, è stato uno shock per tutti quando la corte suprema ha ordinato di ripetere le elezioni.

Eppure gli elettori, scontenti per la frettolosità del processo e incoraggiati in parte da un boicottaggio dell’opposizione, hanno in larga misura disertato le urne in occasione del nuovo scrutinio a ottobre, che ha registrato un’affluenza inferiore al 40 per cento.

Il caso keniano fa emergere un’interessante contraddizione della politica estera moderna. I diplomatici occidentali hanno a lungo predicato il vangelo del buon governo nel mondo in via di sviluppo. Nel 2017 però, mentre nel paese regnava l’incertezza, con la polizia che ha ucciso 78 civili e la stessa commissione elettorale che ha ammesso di aver fatto un disastro in occasione del secondo voto, gli ambasciatori occidentali non hanno fatto altro che intimare ai keniani di accettare l’importanza di un’idea particolare. Non si trattava della “legalità”, della “democrazia”, di “elezioni libere, corrette e credibili”, ma della “stabilità”.

La precedenza sull’impegno politico
Più di 15 milioni di elettori si sono rifiutati di partecipare alla ripetizione delle elezioni in Kenya. Il processo è stato giudicato da più parti illegittimo e ha gettato i semi di uno scontento che potrebbe minare la capacità del partito al potere di governare per i prossimi cinque anni. Ciò nonostante, i diplomatici continuano a ripetere l’importanza cruciale della “stabilità”.

Non è stata né la prima né l’ultima volta che, nel 2017, la parola ha risuonato nel continente. Dal Togo all’Egitto, dal Ciad al Gabon, tutti paesi dove ci sono state proteste contro il governo, l’enfasi sulla stabilità ha avuto la precedenza sull’impegno politico. Per esempio, mentre in Camerun il governo sparava sui manifestanti, arrestava in massa gli attivisti e impediva l’accesso a internet nelle regioni anglofone, i funzionari internazionali continuavano a sollecitare un ritorno alla stabilità. In Etiopia i diplomatici occidentali hanno sostenuto il governo nel ripristinare lo status quo, mentre nel paese veniva proclamato lo stato di emergenza, l’accesso a internet veniva interrotto e l’uso della forza è stato palese.

È una strategia adottata anche con l’Eritrea, uno stato in teoria considerato come un paria, ma diventato oggi uno dei cardini delle politiche europee sull’emigrazione. Se si parla dell’impegno occidentale con l’Africa, la stabilità è la parola d’ordine.

Approccio neoliberista
In nome di questa dottrina della stabilità i governi stranieri mostrano di preferire politicamente il potere in carica. Sostengono lo status quo nel breve periodo, anche se questo significa ignorare un evidente malcontento e non fare caso agli abusi commessi dallo stato. Scelgono il potere a discapito dei manifestanti e privilegiano gli interessi di altri rispetto a quelli dei cittadini nei paesi in questione.

Uno dei principali argomenti a sostegno di questo approccio è inscindibile dal percorso globale del neoliberismo. Lo sfruttamento dell’Africa da parte di interessi stranieri non è una novità, ma condizioni sociali e politiche stabili sono una priorità particolare per la forma di sfruttamento oggi prevalente. Sono soprattutto le multinazionali, più ancora degli stati impegnati a gestire un equilibrio di potere, ad avere bisogno di un terreno politico prevedibile per poter operare.

La dottrina della stabilità tratta l’Africa come un luogo dove fare più soldi possibile nel minor tempo possibile

A differenza di altri momenti storici, oggi la tendenza è quella di concentrarsi sul breve periodo. Durante la guerra fredda, gli stati africani erano considerati potenziali alleati di progetti ideologici di costruzione del mondo proiettati nel lungo periodo. L’attuale dottrina della stabilità ha un respiro di pochi anni. Non ha inoltre alcun interesse a costruire istituzioni, facilitare il buon governo o comprendere le cause sottostanti all’instabilità minacciata. Si preoccupa poco delle implicazioni future delle sue scelte, perché tanto toccherà a qualcun altro risolvere il problema.

In questi ultimi dieci anni, due fenomeni hanno condotto a questa particolare versione della dottrina della stabilità. In primo luogo l’ascesa della Cina, della Turchia e di altri paesi non occidentali ha minacciato il dominio di vecchia data dell’occidente sull’Africa. Questo ha dato più voce in capitolo alle élite africane, tra le principali beneficiarie della “stabilità”, e ha indotto i politici occidentali a essere più tolleranti riguardo alle pratiche di buon governo, per timore di perdere le loro reti clientelari.

Al tempo stesso, la crisi globale del 2007-2008 ha reso ancora più importanti le opportunità di sfruttamento dell’Africa. I mercati, la manodopera e le risorse naturali africane non sono mai stati così essenziali per risolvere le urgenti sfide economiche in altre parti del mondo.

Ritardare, rinviare, negare
Cosa c’è che non va nella stabilità a tutti i costi? In primo luogo, impone una rischiosa ipoteca sul futuro dell’Africa. È un’alleanza tra attori esterni ed élite africane il cui mantra è mangiare subito e ritardare, rinviare o negare le conseguenze.

La dottrina della stabilità tratta l’Africa come un luogo dove fare più soldi possibile nel minor tempo possibile, non un luogo in cui milioni di persone vivono, amano ed esistono. E garantisce ai paesi africani un ruolo alla periferia della politica globale come fornitori di materie prime, mercati e una forza lavoro remissiva per le multinazionali.

Migliaia di giovani africani partono anche a causa dei danni collaterali provocati dalla “stabilità”

Concentrandosi sulla stabilità, gli sforzi e i rischi enormi che attivisti e politici africani affrontano per cambiare il discorso politico passano in secondo piano rispetto agli interessi dei governi stranieri. La diffusa richiesta di una maggiore giustizia, democrazia e responsabilità è in quest’ottica meno importante rispetto alla necessità di mantenere la stabilità, almeno per quanto riguarda gli affari esteri.

In realtà, però, mentre nei corridoi del potere gli attori esterni fanno pendere la bilancia a favore della ricchezza e dello status quo, i paesi africani stanno diventando sempre più inospitali per molti dei loro cittadini, soprattutto i più giovani. Nel 2017, migliaia di persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, e secondo le stime dell’Unione africana attualmente ce ne sono altre 200mila che percorrono il Sahara inseguendo lo stesso sogno.

Partono anche perché uno dei danni collaterali della “stabilità” è lo sciacallaggio ai danni di tutti gli altri. Partono perché non c’è terra da lavorare, svenduta o resa inutilizzabile dalle devastazioni dei cambiamenti climatici. Partono perché i loro titoli di studio non hanno alcun valore dopo che la privatizzazione ha divorato le università pubbliche. Partono perché i loro leader spendono di più in armi necessarie a mantenere il potere che nella sanità. Partono perché i poliziotti si presentano alla loro porta e arrestano, imprigionano o uccidono sommariamente chiunque osi avere un’opinione politica che minacci la “stabilità” del paese.

Stabilità per chi? E per quanto tempo?
Nel 2018 è probabile che in molti paesi africani le cose peggioreranno prima di poter migliorare. Milioni di giovani diventeranno maggiorenni in paesi dove per loro non c’è posto.

In Kenya è probabile che l’autorità del governo eletto in condizioni sospette sarà più che mai messa alla prova. In Camerun e in Etiopia continueranno le proteste e potrebbero aumentare di intensità. Nel frattempo, in Gabon, in Congo e in Repubblica Democratica del Congo, in Guinea Equatoriale, in Eritrea, in Sudan, in Uganda, in Ruanda e in altri paesi continuerà a crescere il disincanto anche se le élite africane e occidentali terranno fede alla promessa, e ai benefici, della stabilità nel breve periodo.

Naturalmente non è l’instabilità la risposta. Ma quando pensiamo alla dottrina della stabilità dobbiamo chiederci stabilità per chi, stabilità con quale obiettivo e stabilità per quanto tempo.

La dottrina della stabilità così com’è esclude i cittadini africani dalla loro politica per timore che possano rompere una situazione di equilibrio, e li abbandona. Questo potrà anche aprire la strada a condizioni di mercato che avvantaggiano le multinazionali e le élite africane di oggi e forse anche di domani. Ma che ne sarà di tutti gli altri? E cosa accadrà dopodomani?

La dottrina della stabilità usurpa un vuoto lasciato dalla lenta erosione del panafricanismo come ideale contrapposto al panafricanismo inteso come merce. Nel 2018 e in futuro è importante riaffermare che l’Africa non è solo un’idea o un mercato che deve restare a tutti i costi aperto agli affari. Basta con la dottrina della stabilità. È giunta l’ora di una dottrina di politica estera che affermi sopra ogni altra cosa la dignità e l’umanità di tutti gli africani.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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