E così sono andato agli Oscar. Ci sono andato come candidato – dovrei sottolineare, in corsivo – e non come un poveraccio qualsiasi, anche se, curiosamente, è proprio quello che sono diventato durante la cerimonia, grazie al sistema di voto arcaico e quasi certamente corrotto dell’Academy.
Ora il mio compito è trovare il modo di fare apparire questa notizia rilevante e non gratuita, o autocelebrativa, in una rubrica sulla mia vita di lettore. E credo anche di poterci riuscire: mi viene in mente che quasi tutti i libri che ho letto nelle ultime settimane potrebbero essere classificati come antiOscar.
Austerity Britain? Ovviamente. Entrambe le parole del titolo sono antitetiche a tutto quello che succede a Hollywood durante la stagione degli Oscar.
Difficilmente vi capiterà di sorprendere un agente della Creative artists agency nell’atrio dello Chateau Marmont che legge il meticoloso, a tratti malinconico libro di Andrew Brown sul suo complesso rapporto con la Svezia.
E il divertente e originale The possessed di Elif Batuman è popolato di persone che passano tutta la vita a pensare, che so, ai racconti di Isaak Babel piuttosto che alla carriera di Jennifer Aniston (non sto dicendo che un’occupazione mentale sia superiore all’altra, ma certamente sono diverse, forse addirittura in conflitto).
E anche l’autobiografia di Patti Smith, che avrebbe potuto essere tutta glamour e celebrità, parla di Jean Genet e di Blake oltre che di rock and roll, e rivela una profondità di temi e un’autenticità che non si trovano neppure nel cinema indipendente.
Ah, e niente narrativa: vorrà pur dire qualcosa, no? Se volete tenere lontano il male, sicuramente il modo migliore è starvene seduti ai bordi di una piscina leggendo un libro sulla crisi abitativa nell’Inghilterra del dopoguerra. Per me ha funzionato. Posso rivelarvi in esclusiva che se state seduti in una piscina di Los Angeles in calzoncini a leggere David Kynaston, le stelline di Hollywood vi lasciano in pace.
Finire Austerity Britain è stato indiscutibilmente il mio più grande traguardo questo mese, più gratificante perfino delle tre ore e mezza che ho trascorso seduto in una sontuosa poltrona ad applaudire altre persone che ricevevano statuette.
Un mese fa avevo letto meno di un terzo del libro, eppure era chiaro che la ricerca di Kynaston, con la sua straordinaria ampiezza e profondità, avrebbe dispensato più piacere di quanto ero autorizzato ad aspettarmi: in alcune occasioni, durante le ultime due o trecento pagine, ho perfino riso. A un certo punto, Kynaston cita un comunicato stampa del 1948 del presidente della Hoover, e in un utile inciso tra parentesi aggiunge che probabilmente era stato “scritto per lui da una giovane Muriel Spark”.
La gioia che dà questo supplemento di informazione è innegabile, ma se avete imparato a conoscere Kynaston coglierete anche la sofferenza e la frustrazione che si nascondono in quel “probabilmente”: quante ore della sua vita avrà speso, vi chiederete, per cercare di eliminarlo?
Mentre leggevo della nascita del nostro sistema sanitario nazionale, il presidente Barack Obama ha vinto la sua battaglia per estendere l’assistenza medica negli Stati Uniti: fa bene, allora, leggere i ricordi dei medici che curavano la classe operaia britannica dell’epoca.
“Nei primi sei mesi di vita del servizio sanitario nazionale, a partire dal 5 luglio 1948, è venuta da me almeno una trentina di donne con i più incredibili disturbi ginecologici. Almeno dieci avevano un prolasso totale dell’utero, che tenevano su con un asciugamano indossato come un pannolone”.
Il primo anno, lo stato ha fornito otto milioni di paia di occhiali e un numero imprecisato di dentiere. Non è che senza assistenza medica gratuita la gente morisse, ma aveva una qualità della vita incredibilmente e inutilmente bassa. Prima del servizio sanitario nazionale brancolavamo semiciechi, sdentati e imbracati in giganteschi pannoloni fatti in casa: possibile che nell’America del ventunesimo secolo i poveri facciano altrettanto?
A proposito, due dei più tipici look del rock and roll li passava la mutua: gli occhiali preferiti di John Lennon erano i 422 Panto Round Oval, quelli di Elvis Costello i 524 Contour. Cos’è, pensavate che David Kynaston avrebbe tralasciato i numeri di serie? Panto Round Oval, tra parentesi, sarebbe un ottimo nome per una band. Se volete usarlo fate pure, ma citatemi nei ringraziamenti.
I miei genitori avevano una ventina d’anni nel periodo preso in esame da Austerity Britain, ed è facile capire perché loro e quelli della loro generazione diventassero pazzi quando noi da adolescenti gli chiedevamo le cose più semplici: stereo nuovi, chopper, album tripli degli Yes.
Non dicevano bugie, loro non le avevano davvero mai avute quelle cose, da giovani. Circa il 35 per cento delle case non aveva una vasca da bagno fissa, circa il 20 per cento non aveva un bagno privato. In uno dei tanti diari che costituiscono l’ossatura di questo libro, una donna racconta che suo padre è andato da Leicester a Londra, un viaggio di circa 320 chilometri, per vedere la finale della Coppa d’Inghilterra del 1949.
Ma non ha fatto tutta quella strada perché aveva un biglietto per la partita: era solo stato invitato da un amico a vederla su un televisore in bianco e nero da nove pollici. Per gli Oscar noi siamo stati al Beverly Wilshire, grazie dell’interessamento. Non era male.
Non ho letto fino in fondo Puzzled people, il libro di Mass observation pubblicato nel 1947 sugli atteggiamenti dei contemporanei nei confronti della spiritualità (come ho spiegato nella scorsa rubrica – siete pregati di non restare indietro – Mass observation è stato un esperimento sociologico a cui hanno partecipato diverse centinaia di persone tenendo un diario e rispondendo a qualche questionario.
I risultati hanno fornito agli storici come David Kynaston una fonte d’informazioni unica). Non c’è bisogno di leggerlo tutto, comunque. Le risposte in prima persona a questioni metafisiche sono l’ideale se avete un po’ di tempo da dedicare alla poesia trovata per caso – e chi non ce l’ha? – come quando dalla surreale deposizione del processo Clinton-Lewinsky qualche anno fa è nato il librettino di poesie Poetry under oath (“Non lo so / che ho detto questo / io no / non mi ricordo / quello che ho detto / e non mi ricordo / a chi l’ho detto”).
Ecco un altro paio di poesie che ho trovato:
Lo scopo della vita
Che domanda difficile! / Non ne ho idea. / La mia vita è lavorare / e fare figli. / Be’, siamo tutti ingranaggi / di una grande macchina, dico io. / Però mi domando: / la macchina a che serve? / È la vostra ricerca.
Gesù
Non mi dispiacerebbe / essere come lui / ma era troppo bravo. / Non ha forse detto: / “Siate perfetti” / o roba del genere? / Be’, / è una cosa / ridicola.
Ho comprato Fishing in Utopia perché mi sono ritrovato in una piccola libreria di paese che chiaramente faticava a tirare avanti, e volevo assolutamente dare dei soldi al proprietario, ma tra tutti quei libri di cucina e di storia locale non riuscivo a trovare niente che pensavo di poter leggere.
A volte serve un po’ d’immaginazione: capita a tutti di sognare a occhi aperti e comprare libri avendo in mente la persona che potremmo essere un giorno, quando la nostra vita sarà diversa, più tranquilla, più introspettiva, e avremo esaurito tutte le letture più urgenti.
Inutile dire che quel momento non arriverà mai, ma Fishing in Utopia – eccentrico, ovviamente intelligente, pacato e contemplativo – è esattamente il tipo di cosa che avrei scelto dopo essere diventato qualcun altro. Leggendolo ora, sono arrivato in anticipo su me stesso. Ho il sospetto che la volgarità della stagione dei premi mi abbia proiettato nel mio futuro.
In ogni caso, la Svezia che Andrew Brown ha conosciuto alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta non è lontana milioni di chilometri e neppure quarant’anni dall’Inghilterra dell’austerity. Per molti versi, il nostro governo laburista del dopoguerra è stato paternalista e ostinato nel perseguire una società più egualitaria almeno quanto i socialdemocratici di Olof Palme.
E non si può fare a meno di provare un senso di perdita: c’è stato un tempo in cui eravamo incoraggiati a pensare e agire collettivamente, in modi non sempre destinati a promuovere l’interesse personale. In Inghilterra, dopo la guerra, tra le sei e le otto di sera non c’erano trasmissioni televisive, un intervallo noto come la “tregua bambini”: la Bbc aveva deciso che l’ora della nanna era già abbastanza stressante per i genitori.
E siccome fino al 1955 in Gran Bretagna c’era un solo canale tv, gli spettatori senza figli dovevano restare a girarsi i pollici. Nella Svezia di Olof Palme si compravano gli alcolici come si comprava la pornografia: furtivamente e nel retrobottega di un negozio dall’aria losca.
Sarebbe bello pensare di essere arrivati al nostro modus vivendi di oggi – bambini che guardano la televisione trenta e passa ore alla settimana e giovani che si sfondano d’alcol, almeno in Gran Bretagna – dopo incessanti dibattiti su libertà individuale e bene maggiore. Ma naturalmente ci siamo arrivati e basta, soprattutto perché l’ha voluto il mercato.
Forse non dovrei consigliarvi Fishing in Utopia a meno che non siate svedesi e/o amanti della pesca con la mosca. Ma Andrew Brown dimostra che qualsiasi argomento, per quanto poco promettente, può diventare avvincente, complesso e poetico se affrontato con intelligenza e con una prosa elegante. Si lancia perfino in un passaggio mistico e sognante sul significato e le consolazioni della morte, e non capitano spesso.
Con tutto l’affetto per la mia casa editrice tedesca e per Colonia, la sua città, non avevo una gran voglia di fare il reading al LitCologne, il suo popolarissimo festival letterario.
Avevo viaggiato molto (sono stato davvero candidato a un Oscar quest’anno, che ci crediate o no, cosa che mi ha costretto a un bel po’ di faticosi andirivieni ), il romanzo che dovevo leggere mi sembrava già vecchio di secoli e da quasi un anno non scrivevo niente.
E invece, la mattina dopo il reading, mi sono ritrovato nella cattedrale di Colonia con Patti Smith e il nostro editor tedesco ad ammirare la nuova stupenda vetrata di Gerhard Richter, e mi sono ricordato qual è la cosa fantastica dei festival letterari: di solito succedono cose del genere.
Non sarà sempre Patti Smith, certo, ma spesso è qualcuno d’interessante, qualcuno che con il suo lavoro ha contato molto per me nel corso degli anni, e se non ci vado finisco per chiedermi cosa mai avrei potuto scrivere in quelle ventiquattr’ore per giustificarmi. Ho cominciato Just kids sul volo di ritorno da Colonia, e l’ho finito un paio di giorni dopo.
Come Chronicles: volume 1 di Bob Dylan, è un’analisi avvincente di come un’artista arrivi dov’è arrivata lei (e più invecchio, più mi scopro interessato ai libri sulle fonti della creatività, per ragioni che preferisco non sapere) e di tutte le cose che ha letto e ascoltato e visto che l’hanno aiutata strada facendo. Ed è stato un viaggio lungo.
Patti è arrivata a New York nell’estate del 1967 e il suo primo album è uscito nel 1975. In questo arco di tempo c’è stato il disegno, poi la poesia, poi i reading di poesia con una chitarra, poi i reading con una chitarra e un pianoforte.
Eppure questa storia, la storia di come un’adolescente del New Jersey è diventata Patti Smith, è solo una trama secondaria, perché Just kids è un libro sul suo rapporto con Robert Mapplethorpe, il ragazzo che Patti ha incontrato il primo giorno che è arrivata a New York, di cui si è innamorata, con cui ha vissuto, e al quale è rimasta fedele per il resto della sua breve vita.
Una delle cose che colpiscono di più di Just kids è il rigore: Patti Smith ha un soggetto e non lo abbandona mai, e tutto quello che scopriamo di lei ci arriva attraverso il prisma di questa narrazione.
È anche un libro che racconta cosa ha significato essere giovani nella New York degli anni settanta: il Chelsea Hotel, Andy Warhol e Edie Sedgwick, Tom Verlaine e Richard Lloyd, Gregory Corso e Sam Shepard. E ovviamente senti una fitta, il tipo di dolore che provi quando hai l’età sbagliata e sei nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La verità, però, è che molti di noi – quasi tutti – avrebbero potuto trovarsi davanti a quella porta e non prendersi neppure il disturbo (o non trovare il coraggio) di aprirla. Dovevi essere Patti Smith, o una persona con la sua idea della vita e di come andava vissuta, per aprirla.
Leggendo Just kids, io ho provato un desiderio diverso. Avrei voluto tornare al tempo in cui le città erano poco costose e piene di cianfrusaglie, e in ogni stradina secondaria c’era un negozio con le vetrine impolverate che vendeva radiogrammofoni e album di musica soul in offerta, o libri di seconda mano che nessuno si era preso la briga di far valutare (a quanto pare, Patti Smith non fa che trovare copie di L’amore e il signor Lewisham firmate da H.G. Wells, o opere complete di Henry James probabilmente messe in vendita per pagare un paio di settimane d’affitto).
Ora trovi solo cappuccini e creme alla banana per i piedi, ed è difficile pensare che da una crema alla banana per i piedi nasceranno le Patti Smith del ventunesimo secolo: lei ha avuto bisogno delle opportunità della città, dei suoi piaceri e delle sue sorprese apparentemente inesauribili.
Comunque, ho adorato Just kids e custodirò gelosamente la mia copia rilegata e firmata fino alla morte, quando, come tutte le mie altre preziose prime edizioni autografe, sarà venduta dai miei figli a molto meno del suo valore, probabilmente per finanziare il loro vizio del gioco.
E allora, forse, la comprerà la cliente bohémienne-chic di un negozietto postcapitalista dell’usato sulla Quinta strada o in Oxford street. E si ricomincerà tutto da capo.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 863, 10 settembre 2010*
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