Libri letti
• Hard rain falling, Don Carpenter
• The conversations, Michael Ondaatje
• Tinkers, Paul Harding
Libri comprati
• Hellhound on his trail, Hampton Sides
• The broken words, Adam Foulds
• It happened in Brooklyn, Myna Katz Frommer e Harvey Frommer
• How to live, Sarah Bakewell
• La versione di Barney, Mordecai Richler
Il giorno che sono arrivato al Sundance Film Festival, l’inverno scorso, tra la neve e il freddo cane delle feste, ho incontrato uno sceneggiatore che voleva parlare non di film, agenti o accordi di distribuzione, ma di questa rubrica, e di questa rubrica soltanto. Dato il felice connubio che c’è tra libri e cinema, e l’intesa reciproca tra chi scrive e chi lavora nell’industria cinematografica, ho pensato che avrei passato tutto il tempo a parlare di The Believer. Ho temuto addirittura che dopo un paio di giorni mi sarei stancato dell’argomento.
Non avevo voglia di sentirmi chiedere in continuazione com’erano i membri del Polysyllabic spree nella vita reale: volevo cogliere l’opportunità di esprimermi sui problemi della Miramax o sulla potenziale debolezza del nuovo assetto della William Morris. Così, ho deciso di adottare la tattica di intrattenermi solo con persone che non sembrassero lettori di The Believer. Una mossa che si è rivelata straordinariamente efficace.
Michael è stato l’unico a superare lo sbarramento, e sono felice che l’abbia fatto. Voleva darmi un consiglio di lettura – probabilmente perché i miei consigli avevano rovinato gli ultimi dieci anni della sua vita di lettore – e mi ha proposto il romanzo di John Williams, Stoner. È un romanzo affascinante, bellissimo, perdutamente triste, saggio ed elegante, uno dei migliori che abbia letto durante la mia grottesca e ingiusta sospensione da queste pagine. Così quando Michael, imbaldanzito dal suo trionfo, è passato a un secondo consiglio, l’ho ascoltato e gli ho dato retta.
Libri scabrosi
Hard rain falling di Don Carpenter fa parte – come Stoner – della collana di classici della New York Review of Books, ma la sua vita non è cominciata in un contesto così elegante, nel lontano 1966. Fate una ricerca su Google immagini e troverete un paio delle copertine originali, nessuna delle quali dà l’impressione che Carpenter sapesse leggere, meno che mai scrivere. Su una appare l’orrendo disegno di un tipaccio sexy appoggiato alla porta della sua cella. L’altra è un po’ sfocata, ma sono quasi sicuro di intravedere nudità supine. Queste illustrazioni non rendono certamente giustizia al talento e alle qualità di Carpenter, ma non sono così fuorvianti: se nel 1966 avete speso una bella cifretta per questo romanzo sperando di comprare qualcosa che non avreste fatto leggere a vostra moglie e ai vostri domestici (per citare le parole immortali di Mervyn Griffith-Jones, lo sventurato pubblico ministero del processo a Lady Chatterley, nel 1960), probabilmente non avete chiesto indietro i soldi.
A partire dagli anni sessanta sono stati scritti molti libri con dentro delle descrizioni di sesso, e posso vantarmi di averli letti tutti, almeno in parte. Ma c’è qualcosa di datato nelle parti scabrose del romanzo di Carpenter che mi ha riportato alla mia infanzia negli anni sessanta. Se rovistavo in fondo ai cassetti giusti, ogni tanto trovavo libri che mio padre aveva accuratamente nascosto: Fanny Hill di John Cleland, per esempio, che era stato pubblicato per la prima volta nel 1749 ma veniva letto ancora di nascosto, almeno in Gran Bretagna, più di duecento anni dopo (leggo su Wikipedia che Fanny Hill è rimasto vietato fino al 1970, ma io l’ho trovato in casa molto prima di allora, e non so dove se lo fosse procurato mio padre. Questo lo fa salire ancora di più nella mia considerazione).
Ormai è finito da un pezzo il tempo in cui la letteratura era in grado di sostituire la pornografia, e dubito che gli adolescenti del ventunesimo secolo con accesso a un computer si prenderebbero la briga di sfogliare Il padrino e i tascabili di Harold Robbins con la stessa assiduità con cui li sfogliavo io negli anni settanta. Di questi tempi, purtroppo, il sesso nei romanzi deve avere un sottotesto che lo giustifichi: a datare il romanzo di Carpenter è il fatto che quasi sempre le coppie in questione si stanno divertendo e basta. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che in un romanzo letterario ho letto la descrizione di una coppia che fa sesso per puro divertimento (e se avete scritto un romanzo così, sono felice per voi e congratulazioni, ma non mandatemelo per favore. Ormai è troppo tardi).
Hard rain falling è un romanzo hard boiled su un delinquente minorile, e poi diventa un romanzo sul carcere, e poi diventa un romanzo yatesiano sulla disperazione coniugale, dove ogni metamorfosi è avvincente, ricca, cupa ma non asfittica. Carpenter è, al suo meglio, un drammaturgo: ogni volta che c’è un conflitto, che ci sono personaggi minori, dialoghi, persone in una sala da biliardo o in una cella o dentro un letto, il suo romanzo si anima e decolla. I livelli di energia, sia i miei sia quelli del libro, sono un po’ scesi quando il protagonista Jack Levitt si ritrova in isolamento e viene colto da lunghi accessi di follia introspettiva. In quei passaggi forma e contenuto si mescolano perfettamente, ma questo non li rende più divertenti da leggere. Nel complesso, comunque, Hard rain falling è fantastico. E se mi stai leggendo, Michael, sappi che aspetto un terzo consiglio di lettura: te lo sei guadagnato.
Ho finito Hard rain falling nel Dorset, in un meraviglioso albergo in disuso con un’atmosfera a metà tra Fawlty towers e l’Overlook hotel di Shining. Mi trovavo lì con la mia famiglia e alcuni amici, e anche se non ho mai dimenticato di essere un lettore – leggevo, e questo mi ha aiutato a ricordarmelo – mi sono completamente dimenticato di essere uno scrittore. Di conseguenza, leggere The conversations, una raccolta di dotte, stimolanti e sorprendenti interviste di Michael Ondaatje al montatore cinematografico Walter Murch, ha avuto un sapore diverso da quello che avrebbe avuto se lo avessi divorato in un altro periodo dell’anno.
Libri utili
Un paio di mesi fa, su queste pagine, ho scritto che sono sempre più attratto dai libri sulla creatività. Ma forse è per ragioni di lavoro: quando leggo questi libri (l’ultimo è stato l’autobiografia di Patti Smith, mi pare), mi sforzo di tradurli in una forma che possa avere un senso per me, professionalmente. In The conversations c’è un mucchio di materiale valido per uno scrittore: un libro sul montaggio cinematografico in cui trovano posto, per intero, la prima e l’ultima stesura della poesia di Elizabeth Bishop Un’arte rivela un’ambizione e una ricchezza che molti libri di poesia non hanno.
In un altro momento – se fossi stato nel bel mezzo della stesura di un romanzo, per esempio, avrei fatto più attenzione al valore del libro in termini di utilità professionale; e ogni tanto, qualcuna delle cose dette da questi due uomini così intelligenti mi avrebbe distolto dalla vacanza e riportato davanti al computer, lontano mille miglia. Il riferimento di Murch a Negative Twenty Questions, per esempio: un gioco inventato dal fisico quantistico John Wheeler per spiegare com’è fatto il mondo a livello quantico. Troppo complicato per spiegarvelo ora… C’è qualcosa nel modo in cui Murch usa il gioco di Wheeler per illustrare il processo del montaggio che mi ha ricordato vagamente cosa si prova scrivendo un libro, quando ci si ritrova a buttare giù una trama in fretta e furia.
Invece l’ho letto semplicemente come avrebbe fatto una persona che ha visto molti film. E siccome Murch ha montato Apocalypse now, Il padrino, La conversazione e Il paziente inglese (e rimontato L’infernale Quinlan di Orson Welles, usando il promemoria di 58 pagine che Welles scrisse agli studios dopo aver visto l’edizione del film montata da loro), ero in buone mani: questo libro è un sogno, non solo per i cineasti, ma per chiunque sia interessato alle piccole ma fondamentali decisioni creative che intervengono nella realizzazione di praticamente qualunque cosa. A un certo punto, Murch parla della registrazione del rumore di una porta che si chiude nel Padrino, e all’improvviso ti rendi conto che il significato del film sta tutto nel rumore di quella porta che si chiude, quando Michael esclude Diane Keaton dal mondo in cui le aveva promesso che non sarebbe mai entrato. Se Murch lo avesse sbagliato, e la porta si fosse richiusa con un clic striminzito e fasullo, molto probabilmente non staremmo ancora qui a parlare di lui.
E il libro è pieno di cose così, discussioni maniacali su particolari che sembrano insignificanti finché l’importanza di quei particolari non diventa chiara. Harry Caul in La conversazione doveva chiamarsi Harry Caller (dall’Harry Haller del Lupo della steppa), finché Murch non decise che Caller era un nome troppo poco ambiguo per un esperto di intercettazioni. Così Caller è diventato Call, che dopo l’errore di battitura di una segretaria è diventato Caul (sacco amniotico, in inglese), che a sua volta ha dato a Coppola l’idea del caratteristico impermeabile trasparente indossato da Gene Hackman.
E a ricordare questo particolare a Murch è un aneddoto di Ondaatje su W.H. Auden, quando scoprì che un refuso nelle bozze produceva un verso migliore dell’originale: “I poeti hanno nomi per il mare” diventò “I porti hanno nomi per il mare”. Accidenti. Se siete le persone che immagino che siate, adorerete The conversations. Stranamente, però, tutti gli amici a cui finora l’ho consigliato l’avevano già letto, il che può significare a) che evidentemente è uno di quei libri la cui reputazione ha continuato a crescere da quando è stato pubblicato la prima volta, nel 2002; e b) che i miei amici mi considerano una specie di bamboccione in grado di leggere solo gli articoli sul calcio e i testi dei Black Sabbath.
E comunque scopriamo che il montaggio è una specie di metafora dell’esistenza. Il nostro matrimonio, il nostro lavoro, la nostra vita familiare… Passiamo gran parte della nostra vita cercando di dare un senso a un incredibile guazzabuglio di immagini, e andare senza intoppi da una fase all’altra della vita.
Arriva sempre un momento, nella vita di un giovane scrittore, in cui lui o lei pensa: “Non voglio preoccuparmi della trama, dei personaggi, di piccoli frammenti di esistenza umana, l’ho già fatto. Voglio scrivere della vita in sé”. E i risultati sono sempre indigesti, fiacchi e pretenziosi. Se siete fortunati, superate questa fase prima di essere pubblicati: vi sarete concessi il lusso di scrivere a ruota libera senza i vincoli della narrazione. Se siete sfortunati, la corda per impiccarvi ve la darà il vostro editore – di solito perché il vostro libro precedente è stato un grande successo – e per voi sarà la fine.
Libri indispensabili
Tinkers è il primo romanzo di Paul Harding, parla grosso modo della vita in sé, e gli è valso il premio Pulitzer. Ma gli è andata bene perché ha l’occhio e l’orecchio del poeta, perché è lo spietato editor di se stesso, e perché non dimentica le unghie dei piedi e dei reni dei suoi personaggi anche quando scrive delle loro anime immortali (era solo una figura retorica un po’ enfatica, quella delle unghie dei piedi e i reni. Non ci sono unghie dei piedi in Tinkers, che io ricordi. Non vorrei scoraggiare nessuno).
Harding ha frequentato il Writers’ workshop della University of Iowa, e non so se sia stato un allievo di Marilynne Robinson, ma se così fosse avrei voluto assistere alle loro lezioni individuali: la profondità, la saggezza, la tristezza e il misticismo un po’ logoro di Tinkers ricordano Padrona di casa di Robinson (e non sto affatto insinuando che Harding abbia copiato da lei, perché nessuno può imitare Marilynne Robinson, a meno che non sia saggio e profondo e dotato di una consapevolezza unica e inimitabile).
Tinkers parla di un moribondo che si chiama George Crosby: è un vecchio arrivato alla fine della sua vita naturale, tormentato da allucinazioni e ricordi e incapace di impedire al passato di tracimare nel presente. La morte di George è legata alla vita di suo padre Howard, e alla sua fine. Howard vendeva pentole dal retro di un furgone agli inizi del secolo scorso, era uno stagnino. George riparava orologi. Tinkers è un romanzo straordinariamente ambizioso nella sua semplicità: in meno di duecento pagine Harding riesce a includere i momenti che segnano una svolta nella vita, momenti accuratamente immaginati, momenti radicati nella realtà credibile dei personaggi.
Avevo pensato di dire che forse non è il libro più adatto da portare in vacanza: chi ha voglia di pensare alla propria mortalità mentre guarda i suoi figli che si divertono a cavalcare le gelide onde inglesi? Ma, in fondo, chi ha voglia di pensare alla propria mortalità dopo aver perso una giornata a trastullarsi su internet invece di scrivere una piccolissima porzione di un romanzo superfluo, o una sceneggiatura che probabilmente non diventerà mai un film? A pensarci bene, l’opzione vacanze probabilmente è la migliore: quando arriverà la mia ora, spero che avrò davanti agli occhi i miei figli che si divertono. Di sicuro non voglio vedere la brutta copia di un paragrafo di un romanzo superfluo.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 875, 3 dicembre 2010*
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