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The immortal life of Henrietta Lacks Rebecca Skloot

The last englishman: the double life of Arthur Ransome Roland Chambers

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Game change John Heilemann e Mark Halperin

The immortal life of Henrietta Lacks Rebecca Skloot

Nell’aprile del 2010 sono stato drammaticamente vittima della nube di cenere vulcanica che per alcuni giorni ha fermato tutti i voli da e per l’Europa, oltre a quelli interni. Sono sicuro che altri avranno fatto la mia stessa esperienza: matrimoni, nascite e funerali mancati, occasioni di lavoro perse, mariti a cui era stata data un’ultima chance e che, arrivati a casa, hanno trovato la loro biancheria buttata per strada, e così via. Ma la mia storia, forse, è la più toccante di tutte: la mia famiglia era bloccata a Tenerife e non ha potuto festeggiare con me il mio compleanno. Vi rendete conto? Di tutti i compleanni da mancare, doveva essere proprio quello che aspettavo con più impazienza. Per tutta la vita mi sono chiesto come sarebbe stato compiere cinquantatré anni e aprire regali da cinquantatreenni – una delle ottime lozioni della Bald Guyz o un cofanetto di Bruce Springsteen – sotto gli occhi della mia famiglia adorante. Be’, la mia famiglia era bloccata su un’isola dell’oceano Atlantico, in un albergo che a quanto pare offriva una fontana di cioccolata per colazione. Quando alla fine sono arrivati a casa, era chiaro che il mio compleanno l’avremmo festeggiato l’anno dopo, nel 2011. Quindi ho deciso, forse comprensibilmente, che questo aprile compirò di nuovo cinquantatré anni. Non è questione di vanità: è solo che sono in credito di un compleanno.

Nel 2010 ho dovuto fare buon viso a cattiva sorte. E la cattiva sorte è stata questa: un piccolo gruppo di amici mi ha portato dello champagne, che abbiamo bevuto nel mio giardino in una splendida serata primaverile, a un’ora in cui altrimenti sarei stato coinvolto in un’estenuante e inutile discussione, che so, sui capelli da lavare o sul momento di andare a letto. Gli stessi amici, poi, mi hanno portato in uno dei migliori ristoranti della città, dove mi hanno consegnato i loro regali. Ora capite perché tanta amarezza, ancora oggi.

Tre dei regali dei miei amici erano in forma di libro e miracolosamente non ne possedevo nessuno e volevo leggerli tutti e tre. Ho ricevuto una bella prima edizione del romanzo di Mordecai Richler L’apprendistato di Duddy Kravitz, una copia di Game change di John Heilemann e Mark Halperin, e la storia della sceneggiatura What happens next? di Marc Norman. È troppo tardi e troppo doloroso dire che il mio cinquantatreesimo compleanno è stato forse il più bello in assoluto?

Sono passati molti mesi e finalmente ne ho letto uno (che è successo nel frattempo? Altri libri, ecco che è successo. Altri libri, altri umori, altri impegni, altri appetiti, altri viaggi e altri reading). Game change parla delle elezioni statunitensi del 2008 e siccome è spuntato in un po’ di liste dei migliori libri dell’anno, qui in Inghilterra, mi sono ricordato di avercelo. Leggendolo, invece, mi sono ricordato che i politici sono diversi da tutte le altre persone che ho conosciuto nella vita.

Forse qualcuno di voi conosce dei politici. Magari li frequentate, siete andati a scuola con loro, vi scambiate gli auguri a Natale. Però io scommetto di no. I politici tendono a non frequentare gente come voi, quasi per definizione. Di solito, chi è interessato alla cultura abbastanza da leggere questa rubrica ha passato un bel po’ di tempo a fare cose che lo rendono inadatto non solo a una carriera politica, ma anche a frequentare chi la fa. Mentre voi fumavate spinelli, dormivate con chi capitava, ascoltavate i Pavement, leggevate romanzi, guardavate vecchi film e praticamente buttavate dalla finestra ogni occasione educativa possibile, loro bussavano alle porte, aderivano ad associazioni, leggevano l’Economist e stavano molto ma molto attenti a evitare situazioni e persone che avrebbero potuto metterli in imbarazzo più tardi. Erano quelli che venivano a bussarvi alla porta cinque minuti dopo il vostro arrivo al college, per chiedervi il voto alle elezioni studentesche: voi li consideravate dei tipi assurdi e ridevate di loro appena si giravano; loro vi consideravano poco seri e confusi, e vi trattavano con irritante condiscendenza ogni volta che per qualche motivo finivano nella vostra stanza. Io spero che, qualunque sia la vostra età, abbiate già fatto quanto basta per stroncare qualsiasi seria ambizione politica. Se non avete dedicato grossi pezzi di vita all’arte, all’alcol e alle droghe leggere, allora avete perso grossi pezzi di vita e non vi vogliamo qui tra noi. Andate via.

Molti dei personaggi di Game change sono chiaramente dei tipi assurdi e poco raccomandabili. È evidente che a John Heilemann e a Mark Halperin piacciono le persone che vogliono governarci, e il libro, che è un’irresistibile miscela di pettegolezzi e cose importanti, riflette questa loro simpatia. Eppure, sfido chiunque a leggerlo senza chiedersi continuamente: ma che gente è questa? Gente che sembra non credere in nulla ma che muore dalla voglia di sapere quello che il paese vuole sentirsi dire.

Obama è diverso, certo, ma resta sempre un mistero perché qualcuno possa voler diventare un leader mondiale. Non è affatto un bel lavoro. Per quattrocentomila dollari all’anno – più un budget di 19mila dollari per i divertimenti, anche se immagino che ben pochi andranno spesi in cd, libri e biglietti per il cinema – rinunci alla sicurezza, alla vita familiare, agli amici, al sonno, a una parte consistente della tua salute mentale e alla stima di circa due su tre dei tuoi concittadini. Dico sul serio: è una prospettiva intollerabile per chiunque abbia una qualche parvenza di vita interiore. Questo significa che in realtà la gente che vuole rappresentarci è la meno rappresentativa del mondo.

Qui in Europa amiamo ancora Obama. Ma proprio all’inizio di Game change, quando Halperin e Heilemann descrivono il suo rapporto con Hillary Clinton, c’è una frase che doveva rendere l’idea di quanto fossero vicini un tempo, e invece riesce solo a sollevare degli interrogativi sui politici in quanto specie. “A un certo punto Obama le fece un regalo: una sua foto con Michelle e le loro due bambine, Sasha e Malia”. Cioè, aspettate un attimo… Hillary è la madre di Barack? Perché se non lo era, per quale cavolo di motivo avrebbe dovuto darle una sua foto con le figlie? Voi lo fareste con un collega di lavoro? “Tieni, ecco una mia foto incorniciata. Mettila dove vuoi in casa tua. Non è necessario che stia in bella vista sul caminetto. Potresti metterla nel tuo ufficio, sullo scaffale riservato alle foto dei tuoi cari”. Provateci, e vediamo quante altre volte vi invitano a bere qualcosa dopo il lavoro.

Game change non è il libro che mi aspettavo, forse perché la campagna presidenziale non è stata come ci è sembrato qui in Europa. Mi aspettavo una storia emozionante ed edificante, piena di buoni e cattivi, di alti elettrizzanti e bassi sconfortanti. Invece Heilemann e Halperin raccontano una lunga, estenuante e amara marcia verso la vittoria. Una buona parte del libro è dedicata all’inevitabilità della sconfitta della Clinton e al suo rifiuto di riconoscerla, mentre Obama aspetta stanco e impaziente. E lo scontro tra Obama e McCain è un non-evento, dopo l’arrivo di Sarah Palin. Questo non significa che Game change sia noioso. Non lo è, perché ogni pagina suona vera. Solo che la verità non è così edificante come vorremmo credere.

Abbiamo avuto un periodo di festa, qui in Gran Bretagna, cosa che spiega la brevità della lista dei libri letti: la mia vita intellettuale è totalmente dipendente dal fatto che i miei figli vadano a scuola. Le feste, però, non spiegano perché non ho scelto libri di narrativa, e neanche perché ho deciso di dedicare il poco tempo disponibile per la lettura ad argomenti poco allettanti come la politica americana e le cellule cancerose. Di questo potrei pentirmi solo se Game change e The immortal life of Henrietta Lacks dovessero essere gli ultimi libri che leggo, perché non credo che illustrino la straordinaria ampiezza dei miei orizzonti letterari. Mi fanno sembrare uno di quei tipi da saggistica che incontro in aereo: “Lei è famoso? Mi spiace, io non leggo molti romanzi. Mi piacciono i libri da cui posso imparare cose nuove”. In questo momento sto leggendo un bellissimo romanzo breve per ragazzi, che alla fine dovrebbe restituirmi la mia complessità: nel frattempo dovrete perdonarmi se queste pagine sembreranno la rubrica dei libri del mese di Business Traveller.

Forse, però, gli uomini d’affari che leggono Business Traveller se ne intendono, perché The immortal life of Henrietta Lacks è appassionante, scritto benissimo e, sì, istruttivo. Ho imparato un sacco di cose. Talmente tante che non faccio che dirle a chiunque mi stia a sentire. Lo sapete chi era Henrietta Lacks? Avete mai sentito parlare delle cellule HeLa? Lo sapevate che si trovano in quasi tutti i laboratori di ricerca del mondo? E via così. Datemi retta, non vi piacerebbe vivere con me in questo periodo. Sono perfino più noioso del solito.

Lo straordinario libro di Rebecca Skloot è la storia di una donna nera poverissima, morta di cancro uterino dopo un’atroce agonia, nel 1951. Poco prima che morisse, un chirurgo ha prelevato un campione del suo tumore e l’ha consegnato a George Gey, un ricercatore che da anni tentava di coltivare cellule umane. Le cellule di Henrietta, però, crescevano al ritmo di una pianta infestante: sono così forti, agguerrite e resistenti, così impazienti di riprodursi che si insinuano dappertutto.

Dopo avere letto i primi tre o quattro capitoli ero un po’ preoccupato per l’autrice: mi sembrava che stesse raccontando la storia troppo in fretta. Le cellule si erano duplicate, Henrietta si era già assicurata un posto nella storia della medicina. Forse le ultime duecento pagine erano una rielaborazione e un’analisi delle prime cento, e il libro avrebbe perso lo slancio della sua partenza mozzafiato. Ma l’autrice sapeva di avere tra le mani una miniera d’oro, un materiale che abbraccia temi come le classi sociali, la razza, la famiglia e la legge. In effetti, The immortal life of Henrietta Lacks parla più o meno di tutto (il libro di Skloot ha richiesto dieci anni di lavoro tra ricerche e stesura. Ho il sospetto che il soggetto del libro sia diventato sempre più ricco anno dopo anno di contemplazione). Skloot racconta casi brevi e stupefacenti di etica medica; segue le cellule quando vengono sparate nello spazio e poi contribuiscono a trovare un vaccino per la polio; ripercorre la vita dei figli di Henrietta, che per decenni hanno dovuto lottare per sopravvivere, dopo la morte della madre. Fino agli anni settanta non immaginavano che avesse raggiunto l’immortalità, perché nessuno si era disturbato a dirglielo o a chiedere il loro permesso: un riguardo negato alla stessa Henrietta, naturalmente. E mentre chiunque di voi, in questo stesso istante, può andare su internet e comprare cellule HeLa, i componenti della famiglia Lacks hanno dovuto combattere, quasi sempre invano, per ottenere un lavoro, l’assistenza medica e un riconoscimento del contributo di Henrietta alla scienza. Se mi capiterà di trovare un libro bello, avvincente, ben costruito e sorprendente come questo entro la fine del 2011 mi riterrò un uomo felice e riconoscente.

La narrativa contemporanea va anche bene, ma a leggerla non s’impara niente, giusto? Per lo più è roba scritta da un branco di sfigati con pretese artistiche che non sarebbero mai disposti a cercarsi un vero lavoro, e che comunque non sanno niente del mondo. La saggistica, quella sì che è forte. Oppure i romanzi storici, perché mentre li leggi ti rendi conto che c’è dietro un grosso lavoro di ricerca sulla fabbricazione dei mattoni nell’ottocento. Oppure i thriller, perché impari un sacco di cose sulle armi sofisticate. Il mio buon proposito è di trovare lavoro come uomo d’affari e iscrivermi a un club del libro per uomini d’affari. In più, voglio fare amicizia con un politico importante, magari un ministro o un segretario di stato. Se qualche ministro o segretario di stato si abbona a questa rivista e mi legge, faccia un salto su Facebook, d’accordo? Sono qui che aspetto col fiato sospeso, quindi sbrigatevi.

*Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 892, 8 aprile 2011*

Correzione: 12 aprile 2011

Nell’articolo Tenerife veniva definita un’isola del Mediterraneo, mentre si trova nell’oceano Atlantico.

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